Pensare fuori dagli schemi: è questa la filosofia di vita del documentarista Alberto D’Onofrio. Dai reduci americani dell’Iraq che hanno dato alla luce dei figli con orribili malformazioni (per l’uso sconsiderato di armi chimiche) sino alla trasgressione della vita notturna nelle megalopoli, passando per l’eros narrato in modo moderno e disinibito.
– Come hai cominciato a fare il documentarista?
Mi ero iscritto alla facoltà di Medicina perché volevo fare lo psicanalista. Dopo il primo anno di università è arrivata l’estate ed ho visto in televisione un ciclo di film di Marco Ferreri tra i quali ”Dillinger è morto”. Vedendo i suoi film è scattata qualcosa nel mio cervello. Avevo 19 anni. Poi ho visto “Il cacciatore” di Michael Cimino e mi sono convinto definitivamente che la mia vita poteva essere solo dietro ad una macchina da presa. Sono riuscito a fare qualche piccolo documentario e venderlo alla Rai. Il primo è stato sul terremoto dell’Irpinia nel 1980. Così ho abbandonato la facoltà di Medicina e mi sono iscritto al Dams di Bologna con l’intenzione di diventare un regista di documentari.
-Nella tua carriera vi sono due filoni che corrono paralleli, le inchieste senza censure su temi scomodi ed un’attenta esplorazione del mondo dell’eros.
Sì, mi interessano molto le storie controverse. Quando ho girato il documentario sull’Unabomber americano, negli Stati Uniti tutti pensavano che fosse un terrorista arabo e invece era un professore di matematica dell’università di Berkeley in California che voleva protestare a modo suo contro l’idea di industrializzazione e contro ogni forma di tecnologia moderna. Il rapporto tra erotismo e società è un tema meno violento solo in apparenza. Nel momento in cui l’erotismo viene represso, si creano squilibrati, violentatori seriali, o delitti a sfondo sessuale o per motivi di gelosia legati a tradimenti vari. Quando giro i miei documentari sull’erotismo o sul sesso racconto i protagonisti che scelgo come se fossero i rappresentanti di un’avanguardia culturale, una sorta di surrealisti del sesso, cioè personaggi che rivendicano la libertà di ciascuno di noi di vivere liberamente la sfera sessuale senza preconcetti e senza il timore di essere giudicati in maniera negativa dalla società.
-Hai sempre preferito lavorare per società indipendenti: tutto questo ti ha creato problemi con i benpensanti del mondo Rai e Mediaset?
Ho sempre cercato di avere un rapporto costruttivo e molto pratico con Rai e Mediaset.
Ma la vera svolta per me è arrivata nel 1988 quando l’allora capo delle news di Mediaset, Giorgio Medail, mi ha offerto la regia dei primi programmi importanti come “Delitti irrisolti” con ricostruzioni in stile fiction di famosi delitti italiani, “I misteri della notte”, serie sulla vita notturna che ho girato a Hong Kong, San Francisco, Budapest, Barcellona, Città del Messico e Milano per Canale 5 e poi un programma sulla moda che ho girato a Los Angeles, grazie al quale ho lavorato per due mesi come regista della versione italiana con la casa di produzione americana Dick Clarck Production. In breve tempo Giorgio Medail è diventato il mio vero maestro ed anche il mio migliore amico. Purtroppo è scomparso due anni fa, ma porto sempre con me il suo insegnamento. Medail è stato definito il pioniere della tv commerciale. Ha praticamente fondato Mediaset quando ancora si chiamava TeleMilano.
Durante il mio periodo americano che è durato sette anni (tre anni a New York e quattro a Los Angeles…) ho cominciato a lavorare dagli Stati Uniti per il programma “Mixer” di Giovanni Minoli. Sono diventato produttore, autore e regista di miei documentari come “Il caso OJ Simpson”, “L’unabomber”, “La sindrome del Golfo” (selezionato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2002 nella sua versione internazionale con il titolo originale “Gulf War Syndrome”), quindi documentari investigativi su temi controversi. Per quest’ultimo mi hanno invitato in tutta Italia per proiezioni in pubblico con quattro-cinquecento persone seguite da dibattiti che andavano avanti per due o tre ore.
Ho provato la stessa emozione alla mostra del cinema di Venezia nel 2007 per la proiezione del mio documentario “Il capitano”, la biografia dell’indimenticabile terzino della grande Inter Giacinto Facchetti, poi trasmesso da Rai 1 e da Rai educational. Per me questi sono i miei lavori più importanti che mi hanno dato le maggiori soddisfazioni.
Scorre come un frenetico videoclip la vita professionale di Alberto D’Onofrio, che ha cinquant’anni ha l’energia di un ventenne, reduce dal successo sugli schermi di Rai 2 per “Party People Ibiza”, attento reportage sulla vita notturna ed i suoi protagonisti.
-Hai restituito al pubblico, senza scadere nelle semplificazioni, la vera anima di Ibiza e del lavoro musicale dei dj. Con quale artista, fra quelli intervistati, ti sei sentito più in sintonia, considerando che crei ed esegui le colonne sonore dei tuoi lavori?
La verità è che non ho mai sopportato l’equazione musica = droga, alcool e sballo. Volevo raccontare Ibiza come fenomeno musicale e di conseguenza culturale, ma anche come fenomeno di costume. I dj sono le nuove popstar ed un motivo ci deve essere. Mi è piaciuta l’umiltà di alcuni di loro, per esempio Carl Cox che è arrivato a Ibiza senza un soldo e con un sogno e ce l’ha fatta. Ogni tanto compongo pezzi per le colonne sonore originali dei miei documentari e uso più o meno gli stessi sintetizzatori e sequencer che usano anche i dj. Questo per me è stato un altro motivo di interesse che mi ha portato a girare questa serie a Ibiza ed anche le mie due precedenti serie sui dj e i party “Dj’s Trip” nel 2003 per Cult Network Italia (canale culturale di Stream e poi della Fox) e “DJ Stories” per Dee Jay Tv. Tra quelli che ho raccontato in “Party People Ibiza”, il dj che è più vicino alla musica che mi piace in questo momento è Solomun.
-Come vedi, da regista e documentarista, l’Abruzzo delle inchieste giudiziarie, dei disastri ambientali, della corruzione politica?
Mi sembra un altro set naturale per un film “stile Elio Petri”, proprio raccontando queste storie che citi. Io credo che Pescara potrebbe diventare un punto di riferimento internazionale per l’arte d’avanguardia e la musica elettronica, proponendo festival ed appuntamenti unici e lanciando una sorta di accademia dell’arte e della musica frequentata da studenti di tutto il mondo. Immagina una intera regione che abbia la ricchezza di eventi culturali che ha per esempio una città come Vienna. Potrebbe diventare anche la regione all’avanguardia per il rispetto per l’ambiente, eliminare le automobili dalle città e far circolare solo biciclette, tram elettrici e macchine elettriche. Potrebbe essere la regione che vanta il mare più pulito del Mediterraneo e l’accoglienza alberghiera più moderna.
Americo Carissimo