L’Italia tagliata: lo Stato abbandona le aree interne e smette di essere Repubblica

“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani.” — Massimo d’Azeglio

Essere Rappresentati dallo Stato

Oggi, a oltre 160 anni da quella frase, la questione non è più “fare gli italiani”, ma decidere quali italiani meritano ancora di essere rappresentati dallo Stato. Con una sola riga, in un documento ufficiale aggiornato nel giugno 2025, il governo ha dichiarato morta una parte d’Italia. Quella silenziosa, dispersa, invisibile per i radar dell’alta politica: le aree interne.

Una frase che suona come una condanna

Nel nuovo Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne 2021–2027, destinato a guidare gli investimenti nei territori più fragili, si legge:

“Molte aree interne si trovano in una condizione di declino irreversibile.”

Non è un’analisi. Non è un’allerta. È una condanna politica. È come se la Repubblica firmasse la rinuncia alla sua parte più profonda, la più vulnerabile e allo stesso tempo la più autentica.
E non basta cancellare le virgolette: il messaggio rimane. L’Italia si ritira da sé stessa. Lo fa con il linguaggio tecnico di chi ha già deciso di abbandonare i propri cittadini.

Essere Rappresentati dallo Stato ma lo Stato firma la sua ritirata

Questa dichiarazione è più che uno scivolone lessicale. È una scelta di campo. È la certificazione di un disegno: concentrare risorse, potere e servizi nei centri urbani e nei poli economici, lasciando che la parte più debole del Paese venga accompagnata con “misure compensative” verso l’estinzione.
Lo Stato smette di essere un soggetto equo e diventa un amministratore di diseguaglianze.

L’abbandono non è irreversibile

Ma perché il declino dovrebbe essere irreversibile? E chi ha deciso che un bambino nato a Muro Lucano o in un borgo dell’Alta Irpinia ha meno diritto alla scuola e alla salute di un coetaneo milanese?
Non è irreversibile il declino. È volontario l’abbandono.

Una disfatta annunciata

È il risultato di anni di tagli, disattenzioni e riforme pensate solo per i grandi numeri. Prima hanno chiuso le scuole “improduttive”. Poi i presìdi sanitari “sottoutilizzati”. Poi le stazioni ferroviarie “non redditizie”. E oggi arriva il colpo finale: la legittimazione della disfatta come “naturale”.
Un’Italia che si rassegna alla scomparsa di se stessa.

Le spese che raccontano le vere priorità

Ma il paradosso diventa ancora più feroce se si guarda dove il governo decide di spendere davvero:

  • Milioni per costruire un hub per migranti in Albania, fuori dal territorio nazionale e fuori dal diritto europeo.
  • Miliardi per il Ponte sullo Stretto di Messina, monumento ideologico a una visione di sviluppo centralizzata e spettacolare.
  • Aumenti vertiginosi della spesa militare, fino a un possibile 5% del PIL, in nome di una proiezione di forza che non protegge nessun medico di base e nessun insegnante in un paese di montagna.

Essere Rappresentati dallo Stato: Una quotidianità fatta di assenze

E intanto le scuole nelle aree interne chiudono, le ambulanze non arrivano, i medici vanno in pensione e non vengono sostituiti, i sindaci devono inventarsi soluzioni d’emergenza con fondi ridicoli, e gli ospedali diventano cronache di un collasso annunciato.
Chi resta, lo fa per tenacia, per attaccamento, per dignità. Non certo per incentivo statale.

La voce di chi resiste

In questo quadro desolante, la voce più nitida viene proprio da chi quelle terre le abita e le racconta ogni giorno. Il giornalista lucano Giuseppe Lopergolo, parlando della frase inserita nel documento nazionale, ha scritto:

“Un Paese che dichiara la fine di sé stesso, un borgo alla volta, sta smettendo di essere una Repubblica.”

Una frattura costituzionale

Ecco il punto. Non è una questione di chilometri, di altitudine o di demografia. È una questione costituzionale, è l’unità della Repubblica che si frantuma, pezzo dopo pezzo. È il principio di uguaglianza territoriale che viene abbandonato come un orpello del Novecento.
L’idea stessa di Stato – come garante dei diritti ovunque, non solo dove conviene – si dissolve nella nebbia dell’efficienza, del PIL, del “ce lo chiede l’Europa” e del “ce lo impone il mercato”.

Se muore una parte d’Italia, muore l’Italia

Ma se una parte dell’Italia viene dichiarata finita, allora finisce anche l’Italia. Non quella turistica e da cartolina, ma quella vera, quella che resiste nelle valli dell’Abruzzo interno, nei paesi della Basilicata, nelle colline marchigiane, nei borghi della Sicilia interna, nella Sardegna dell’entroterra.
Finisce un’idea di nazione come spazio condiviso, e comincia una geografia a due velocità: centri urbani con servizi avanzati, e territori-spazzatura dove la popolazione può solo invecchiare o emigrare.

Scelte politiche, non destino

Ma questo esito non è ineluttabile. È una precisa scelta politica, fondata su una visione miope e classista del Paese.
Esistono alternative. Esistono modelli europei che hanno saputo rilanciare le aree rurali con infrastrutture digitali, incentivi fiscali, servizi scolastici diffusi, sanità territoriale, agricoltura intelligente, mobilità sostenibile, scuola e cultura di prossimità.
Serve solo una cosa: la volontà di esserci, davvero. Di considerare ogni cittadino italiano, ovunque viva, degno dello Stato.

Coesione: una parola svuotata

Finché ciò non accadrà, ogni parola su “coesione”, “territori”, “radici”, sarà solo retorica ipocrita buona per i comizi elettorali o le sagre estive.
E ogni euro speso per le vetrine mediatiche – dal ponte ai droni, dagli hub offshore alla propaganda sovranista – sarà un atto di accanimento verso chi è stato lasciato solo a difendere l’idea di Repubblica.

Essere Rappresentati dallo Stato: Quando lo Stato si ritira, muore la democrazia

Perché non è la montagna che muore. È la politica che si arrende.
E quando lo Stato si ritira dai margini, è la democrazia che si restringe.
Un metro alla volta. Un silenzio alla volta. Una frase alla volta.

di Carlo Di Stanislao

La Redazione de La Dolce Vita
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