Allarme! Vogliono annacquare il vino per farne una bevanda a basso contenuto alcoolico. Allarme! È arrivato meno di un mese fa il via libera dell’Eurogoverno agli insetti a tavola. Allarme! L’articolo 60 del Codice doganale UE stabilisce che un alimento può acquisire l’origine del Paese in cui sia avvenuta l’ultima lavorazione o trasformazione sostanziale quale ad esempio la molitura del grano per quanto concerne le farine. Allarme! Un’analisi di circa 96.000 campioni di alimenti ha dimostrato che cibi e bevande straniere sono più pericolosi di quelli italiani per le maggiori quantità di pesticidi e residui chimici su frutta, verdura, cereali e vino provenienti dai Paesi UE ed extra-UE, residui chimici che nel nostro territorio sono limitati o banditi ma che altrove sono usati in abbondanza.
I cibi che arrivano da lontano hanno pesticidi pari al 5,6% rispetto ad una media che nei Paesi UE si ferma all’1,3% mentre in Italia scende allo 0,9%. Segno che il “made in Italy” a tavola vince sempre. Fra i prodotti più a rischio ci sono le fragole che arrivano per lo più dalla Spagna a riempire gli scaffali della grande distribuzione, cavoli cappuccio, l’uva per la vinificazione, pomodori, molti coltivati in Cina e che pure in Italia arrivano a quintalate per poi essere trasformati in passate e pelati nel nostro Paese e che possono esporre la bandierina tricolore proprio in base al suddetto articolo 60. E non è finita qui la lotta continua intrapresa dai nostri produttori verso regole comunitarie che li danneggia proprio in virtù della maggiore salubrità dei loro alimenti fino a disposizioni che hanno dell’incredibile se non del paradossale.
Infatti l’origine obbligatoria in etichetta per i salumi è stata introdotta da decreto interministeriale del 6 agosto 2020 ma per adeguamento degli imballi e delle scorte da smaltire, l’obbligo è scattato solo due mesi fa. Ma c’è ancora una buona percentuale di salumi che si trova sui banconi dei supermercati tuttora priva dell’indicazione di provenienza. Interviene la Commissione UE che stabilisce l’esenzione dichiarativa per tutti i prodotti Dop (denominazione origine protetta) oltre a quelli Igp (indicazione geografica protetta) solo che mentre i primi possono utilizzare solo materie prime al 100% italiane, i secondi no perché dipendono dal singolo disciplinare di produzione ossia se vogliamo sapere se la Mortadella di Bologna o lo Speck d’Alto Adige siano fatti con carni italiane bisogna spulciare l’ultima versione web del disciplinare: scoraggiante! Ugualmente esclusi dal campo di applicazione di questo decreto sono pure i salumi “porzionati” o affettati e messi in vaschetta dal supermercato.
Il “cavillo”, di cui siamo maestri, ce lo fornisce Rolando Manfredini, responsabile della sicurezza alimentare della Coldiretti: il decreto sule carni suine trasformate si applica ai prodotti “confezionati” dal produttore nel salumificio ma non comprende gli alimenti “imballati” nei luoghi di vendita. Una norma che di fatto crea un corridoio su cui possono transitare salumi di ogni provenienza che finiscono sul bancone privi della dichiarazione d’origine. Quindi lo stesso salume se confezionato dal produttore deve indicarne l’origine mentre se il confezionamento avviene nel punto vendita può non indicarla. La carne bovina fresca e l’ortofrutta anche se confezionate presso il supermercato devono riportare sempre il Paese d’origine. Servirebbe più linearità e chiarezza nei confronti dei consumatori come chiosa Attilio Barbieri che osserva peraltro che la Commissione europea dovrebbe applicare un pacchetto di norme vincolanti sull’origine, inserite nel programma “Farm to Fork” dal campo alla tavola.
Ma anziché puntare sulla trasparenza questo programma UE rischia di trasformarsi in una fregatura solenne per molti cibi italiani nella prospettiva che accolga il sistema di etichettatura a semaforo il “Nutriscore” già in uso in Francia e Belgio, in pratica la composizione merceologica del cibo in carboidrati, grassi e proteine affidandosi a colorazioni dal rosso al verde. Vuol dire che l’olio d’oliva è rosso perché grasso come il Parmigiano, il formaggio più imitato al mondo! Inutile dire che ci sono grassi saturi (dannosi) ed insaturi (salubri) e solo la dose stabilisce il veleno diceva Paracelso come l’alcool del vino. E a proposito di vino la UE sembra proporre il via libera alla dealcolazione del vino in tutti i Paesi dell’Unione Europea, anche per le produzioni a Denominazione d’Origine oltre che in primis per quelli da tavola: l’obiettivo sono i nuovi mercati. Una svolta che sembra scompaginare il mondo enoico ma ancora tutta da capire e concretizzare. Certo fa rabbrividire l’idea di “annacquare” il vino per renderlo meno alcolico decadendo il vecchio assioma “pane al pane e vino al vino” riguardo l’idea di estrema chiarezza. Tanto che è ancora illegale nel nostro Paese sia annacquarlo che extra-zuccherarlo, quest’ultima pratica permessa sia in Francia che nei Paesi nordici per dare vita ad un succo d’uva esangue da quelle parti.
A riguardo vanno fatte alcune precisazioni. Il quadro politico UE prende le mosse da un lato da necessità di mercato, e quindi di mera natura economica che i grandi produttori vedono come un’opportunità con l’esempio più calzante dei Paesi Arabi, dall’altro da un contesto europeo in cui la lotta per le politiche sempre più all’insegna del salutismo, raccolte nello “UE Beating Cancer Plan”, trova ampio appoggio tra i Ministri dell’Agricoltura del Nord Europa. Così come la birra analcolica si è creata un suo mercato, non si esclude che il vino possa fare altrettanto. Paolo De Castro, coordinatore S&D alla Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo su un dato appare certo: chiamare “vino” una bevanda a base si succo d’uva dealcolato non ha nulla a che vedere col vino. Dopodiché, per alcuni produttori può essere un’opportunità, ma da qui a definirlo vino ce ne passa ed aprire questa possibilità ai vini a denominazione non ha senso.
Per saperne di più sulla dealcolazione intesa come tecnica enologica, non per produrre vini senza alcool, “WineNews” ha raccolto il punto di vista di Giuseppe Caviola, uno degli enologi di riferimento del panorama produttivo italiano, che spiega che la dealcolazione è essenzialmente una filtrazione, a cartuccia o a membrana, che sottrae alcool al vino, un’operazione che si rende necessaria quando si arriva a concentrazioni di grado alcolico e grado zuccherino troppo elevate o quando, per certi mercati, si vogliano produrre vini meno potenti e più facili e beverini. Comunque, precisa, la filtrazione è una pratica invasiva dal punto di vista organolettico e l’invito al buon senso di non usare filtrazioni troppo strette per far sì che un vino esprima le caratteristiche di un vitigno e di un territorio e per i vini a denominazione ci soni i “disciplinari” che stabiliscono oltretutto che l’alcool del vino è una componente fondamentale come le ruote per un’automobile. Vedremo che succederà e quale sorte toccherà alla “buona bottiglia” ben conservata ed invecchiata che spero rimanga nell’anima, nella poesia, nelle letteratura, nell’arte, nella storia sia del sacro che del profano per come l’abbiamo conosciuta ed ereditata, nonostante il transito già occorso in Tetrapak e in lattina (famoso il lambrusco Giacobazzi degli anni 80 con i sui 8° in lattina, piacere del popolo USA). E sta tornando difficile farsi in casa le tagliatelle 100% made in Italy. A differenza della semola di grano duro destinata a produrre la pasta industriale, la farina di grano tenero che si utilizza in casa per produrre, pasta, gnocchi, dolci non deve indicare la dichiarazione d’origine.
Ma è opaco il nostro comparto produttivo che ha addirittura reclamato il diritto di etichettare come 100% italiana la farina sì molita nel nostro Paese ma a partire da grani importati con i mugnai che si sono fatti molto furbi. A riguardo tuttavia c’è da aggiungere che questa non è questione di lana caprina o di semplice orgoglio di campanile ma si sta parlando di una grossa fetta della nostra alimentazione a base di carboidrati ed il grano d’importazione pecca di una maggiore presenza di residui chimici come i glifosati, da noi proibiti ma altrove permessi e di largo uso, oltre che di un “trasporto multimodale” che ha in se i suoi veleni. Immaginiamo l’iter del nostro grano, si va dal camion, al deposito, al vagone ferroviario, alle stive della nave così che passano settimane dal “Farm to Fork” e nel frattempo vanno utilizzati conservanti per evitare i contagi di funghi e parassiti ed è riportato che lo stesso grano può avere un prezzo diverso a seconda del livello di stoccaggio: più caro quello in superficie, più economico quello conservato nel fondo di una stiva. E sinceramente non c’è da stare troppo tranquilli perché nonostante la stessa origine il prodotto può essere più o meno “medicalizzato”.
E non c’è da stare tranquilli neanche per l’allarme lanciato dal presidente della Coldiretti Ettore Prandini per i rincari insostenibili delle materie prime, dei principali elementi della dieta degli animali. E quali sarebbero questi “principali elementi” della dieta degli animali? Mais e soia! Se ne deduce che i nostri vitelli hanno un’alimentazione a base principale di cereali e non di semplice foraggio. Ora circa 10 anni fa Michael Pollan, uno dei più influenti esperti di alimentazione al mondo e professore all’Università di Berkeley ha pubblicato il suo libro “Il dilemma dell’onnivoro” giudicato dal NYT uno dei 10 libri migliori dell’anno. Qui si fa luce sulla profonda mutazione dell’agricoltura americana con i farmers passati da 300 milioni a due milioni, con i campi di foraggio ed erba medica scomparsi per far posto alla molto più redditizia coltivazione di mais e soia ed improvvisamente era diventato più economico ingrassare bovini polli e maiali invece che di erba e fieno. Nacque una nuova industria: le mucche, i maiali e le galline venivano ingozzati di mais e soia in grossi recinti industriali “da ingrasso” i “feedlot”.
Ora il rumine dei bovini è un perfetto organo digerente per l’erba, non per il mais, ma questo lo fa ingrassare con maggiore rapidità. A quale prezzo? Molto alto per noi e per l’animale. Per noi la carne marezzata di venature di grasso è più buona e saporita, spacciata per alta qualità, ma quel grasso è molto ricco di acidi saturi (omega 6) molto più dannosi per noi del grasso di una mucca allevata a foraggio più ricca di grassi omega 3 come quello dei pesci. Per la mucca la fermentazione dei cereali nel rumine porta ad un eccesivo gonfiore ed iperacidità da neutralizzare con antibiotici, antiulcera o da intervenire manualmente per liberare il gas dal rumine altrimenti respirano a fatica per la conseguente scarsa espansibilità polmonare. Tanto che il letame da loro prodotto che una volta veniva utilizzato per la concimazione dei campi ora deve essere considerato come “scoria tossica! Ma tranquilli se a carne non è sana la UE ha sdoganato gli insetti per nutrirci sotto forma di “barretta energetica” chiamata esoticamente “Novel food”, o cracker, snack, biscotti a base di insetti essiccati di cui la UE nel suo ennesimo slancio ecosostenibile ha autorizzato la commercializzazione. Così che i nostri giovani sono passati dall’eccessivo consumo di carne spesso estrogenata, agli hamburger a base di proteine vegetali talmente manipolate ed arricchite per imprigionare il “meat-taste”, fino a nutrirsi di pasta e piatti pronti a base di coleotteri e affini. Dalla merendina immersa nel barattolo di Nutella, per carità poco salubre, alla barretta di locusta come snack lo shock è inevitabile. Si lo sappiamo che l’entomofagia ha una storia lunga di secoli, da Aristotele a Giovanni il Battista ghiotto di locuste immerse nel miele selvatico, che nei paesi orientali se ne fa ancora largo consumo, che hanno basso impatto ambientale, che potrebbero sfamare intere popolazioni per il loro alto contenuto proteico.
Ma a parte l’ape o il baco da seta, simboli di bellezza, ogni insetto, dal verme allo scarafaggio o alla cimice asiatica che sta devastando le nostre coltivazioni fruttifere, incute in noi occidentali un senso di raccapriccio, rabbia o disgusto. Purtroppo secondo gli scienziati dovremmo farcene una ragione: il nostro pianeta fra pochi anni sarà popolato da 10 miliardi di abitanti e non saranno le bistecche, il culatello o il pollo arrosto la risposta ai fabbisogni proteici della popolazione mondiale a meno che non si voglia far collassare l’ecosistema. E già i nostri cuochi sono all’opera e si stanno attrezzando come Carlo Cracco che ha cucinato e degustato con soddisfazione le cavallette. L’antropologo Marvin Harris ci ricorda riferendosi all’evoluzione della specie “che noi discendiamo da una lunga schiatta di mangiatori d’insetti”. Non bastava che la nostra benedetta “Cucina Italiana” sia stata stravolta dagli chef in tv trasformati in egocentrici “neofuturisti del piatto” che assemblano cibi cotti sottovuoto, ingredienti vaporizzati, destrutturati, o bassotemperaturizzati, miniaturizzati, emulsionati in un mondo ove il gusto e la tradizione sembrano non avere più spazio. Ed un ecosistema sempre più minacciato da misure che sembrano preservarlo come gli appelli al green, alla sostenibilità, al regime vegano ma che i realtà nascondano seri pericoli. L’occasione l’ha offerta la giornata mondiale delle api perché dallo loro difesa passa la difesa della biodiversità e del valore delle nostre produzioni. Il miele italiano è il migliore del mondo ma la moria delle api e la concorrenza sleale sul prezzo (il cinese a poco più di 1 euro) lo ha messo in ginocchio. Ebbe a dire Albert Einstein “Se l’ape scomparisse dalla faccia della Terra all’umanità non resterebbe che pochi anni di vita: senza api niente più impollinazioni, niente frutti, niente vita”. Eppure c’è chi predicando il bio, il vegano, il falso naturale sta uccidendo le api. Tutti i cosiddetti tipi di “latte vegetale” sono nemici delle api. Infatti per preparare questi estratti che siano di avena, di piselli, di mandorle, di soia servono coltivazioni intensive ed estensive che minano la biodiversità perché le api oltre a nutrirsi di tanti fiori diversi vengono uccise dalla enorme quantità di fitofarmaci e pesticidi utilizzati per queste coltivazioni. Ma com’è possibile che se il naturale è bello si sono dovuti rivolgere ai “robot impollinatori” mentre nel mondo sono scomparsi 10 milioni di alveari? Comprendo che in poco più di mezzo secolo la popolazione mondiale è raddoppiata ma siamo sicuri che non ci fossero alternative a sconfiggere la fame nel mondo, come le colture con OGM che sopravvivono in ambienti difficili o allevamenti capillarizzati e diffusi senza il dominio economico-sociale delle multinazionali? No! Dobbiamo dare, vendere, ai poveri le schifezze che producono i ricchi che si tutelano con le prelibatezze nel loro fulgido e sacro privato.