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Gioventù bruciata

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E’ il titolo di un film del 1955 di Nicholas Ray del primo dopoguerra che descrive l’inizio del declino della nostra civiltà occidentale a partire da quell’America che tanti eroi ha sacrificato nella nostra terra per liberarci dal giogo nazifascista ma che già nutriva la ribellione delle nuove generazioni verso una borghesia fortemente cristallizzata. A distanza di quasi settant’anni l’epilogo di queste nuove leve non è molto diverso per la fine nefasta dei protagonisti, ieri Dean Martin che muore in un incidente stradale ed oggi Ugo Russo il baby rapinatore napoletano ucciso da chi ha avuto la disgrazia di doversi difendersi da lui nel corso di una rapina, quasi per gioco, ma finita male. Un quindicenne proveniente da un ambito familiare intriso di storica illegalità ed un ventitreenne carabiniere in compagnia della sua fidanzata in cerca solo di un momento di serenità. Possiamo dire due mondi giovanili che hanno fatto scelte diverse per dare un senso alla loro esistenza: chi dalla parte della forza e violenza per iniziare a guadagnarsi l’autostima e chi ha deciso di essere dall’altra parte non dell’attacco ma della difesa contro il sopruso e la violenza. Di chi la colpa? Da un punto di vista strettamente legale ovviamente la risposta non può che essere una sola. Da un punto di vista più ampio nell’ambito della sociologia la risposta non è così scontata. Perché dall’intervista al padre del ragazzo ucciso fuoriesce quella drammatica realtà del degrado sociale, non perseguito ad ampiamente tollerato dalle nostre Istituzioni, spesso anche conniventi per consenso elettorale, in cui è vissuto l’adolescente. E allora la domanda cruciale che si pone: chi aveva il dovere di controllare, di bonificare certi ambiti di provata e storica illegalità e non l’ha fatto? Addirittura sembra che anche la stessa Magistratura secondo la quale la legge dovrebbe essere uguale per tutti si comporti secondo un assetto francamente orwelliano a conoscenza di alcune sentenze che sembrano da “brivido” come l’acquiescenza verso lo stupratore extracomunitario per un presumibile “diritto all’orgasmo”, verso lo spacciatore colto in flagranza di reato che non aveva alcun altro reddito di sopravvivenza, verso il masturbatore in autobus che essendo di domenica e col bus poco affollato in assenza di testimoni minorenni il reato di atto osceno poteva essere quasi escluso, verso il rom ferito dal rigattiere Ermes Mattielli che dopo ver subito numerosi furti ha avuto la forza di difendersi col risultato di dover pagare un discreto risarcimento monetario all’autore dei furti e che dopo tale sentenza è morto per infarto. E per finire con le forze dell’ordine che non possono usare l’arma da fuoco a meno di subire un processo bene che va per eccesso di legittima difesa, male che va per omicidio volontario come in questo recente caso del carabiniere ventitreenne. E non dimentichiamo i quattro carabinieri che alla stazione di Torino qualche anno fa hanno preferito subire coltellate da parte di un clochard tedesco ubriaco per evitare di fargli male e andare di conseguenza sotto processo per lesioni personali. Di certo non sono dalla parte di quell’oramai non più tollerabile giustificazionismo che ha fatto al fortuna di personaggi che definirli scrittori o saggisti mi viene il voltastomaco come Roberto Saviano secondo il quale i rapinatori sono una conseguenza diretta della povertà. E siccome lo Stato non è in grado di sconfiggere la disoccupazione i suoi rappresentanti dell’Ordine dovrebbero evitare di sparare contro i rapinatori. Secondo il pensiero “giustificazionista” si capovolge il rapporto vittima-carnefice in quanto le vittime delle rapine in realtà sono i veri carnefici per il solo fatto avere una indipendenza economica e quindi appartenere alla categoria dei “privilegiati di Stato”. Questa linea di pensiero, come riporta Alessandro Orsini sul “Il Messaggero”, è la principale forza culturale che spinge a devastare un Pronto Soccorso o a cingere d’assedio una caserma dei carabinieri con una “stesa” di proiettili, ossia strutture-simbolo dello Stato. Ma come osserva il giornalista questa tesi giustificativa ha almeno tre elementi di debolezza. Il primo è quello dell’univocità della risposta allo stimolo povertà-indigenza in quanto la maggioranza delle persone povere non ricorre alla delinquenza per sbarcare il lunario, ossia fra disoccupazione e rapina mano armata ci dev’essere qualcos’altro cioè una cultura, un processo interpretativo collettivo del mondo in cui lo Stato è il responsabile di tutto ciò che accade nelle nostre vite. Il secondo elemento di debolezza sta nel fatto che difficilmente a 15 anni si cerca un lavoro e quindi non si è nello sconforto di un quarantenne che ha subito tanti rifiuti di ingaggio per cui la sua scelta criminale è figlio di una cultura del desiderio spropositato anche perché sembra che il ragazzo avesse avuto anche esperienze lavorative semplici di manovalanza ma che certamente non permettono una vita lussuosa sopra le righe alla stregua dei camorristi o degli spacciatori di droga. E qui sta il terzo elemento di debolezza: l’emulazione, come la serie televisiva “Gomorra” aiuta a comprendere e a testimoniare che lo stipendio di uno spacciatore è di gran lunga superiore a quello di un ricercatore universitario. E di qui aggiungo tutta una serie concausale, una drammatica reazione a cascata che definisce l’anomalo prodotto finale: un mondo giovanile in preda al “nichilismo” a quell’”ospite inquietante” come lo definisce il filosofo-sociologo Umberto Galimberti, un mondo ove Dio è davvero morto e la “Ragione” illuminista non sa più che pesci prendere per regolare i rapporti umani. E la tragedia ancora più grande è che una buona fetta dei quartieri di Napoli ha un’anima profonda che difende il rapinatore come si evince dalle affettuose scritte sui muri dedicate al ragazzo ucciso. Vite parallele, quelle legali e quelle illegali, entrambe oramai placidamente conviventi tranne qualche sporadico punto di contatto dagli esiti imprevedibili come nel caso che stiamo descrivendo. E qui subentra lo sconcerto verso chi non ha contezza dell’origine dell’evento. Quel “Sol dell’avvenire” mai inverato e sempre spento! Quei moti rivoluzionari che hanno abbattuto il senso del “limite” nel nome del “vietato vietare”. Oggi raccogliamo il triste frutto di quella razionalità tecnica che ha decretato l’implosione del “senso” una tecnica che non promuove un senso, non tende ad uno scopo, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, semplicemente “funziona” ma a modo suo. Tutto il mondo educativo oggi è tanto aperto che non ha più algoritmi di riferimento come testimonia una scuola che non è più in grado di costruire nell’adolescente il senso dell’autostima, lasciandolo solo nelle sue scelte che possono sfociare, alla pari, tanto per indossare una divisa quanto nell’impugnare una minacciosa pistola. Ed è nella costruzione dell’identità che interviene il riconoscimento dell’altro e spesso sesso e droga cominciano ad apparire come forme esasperate di riconoscimento perché forme più adeguate non sono state offerte. L’adolescenza segna l’epoca della massima espressione del desiderio che spesso è in conflitto con la realtà e, come dicono gli psicologi, le vie di uscita sono due o la “rimozione” della realtà con rifugio in un mondo solo sognato o la “frustrazione” che pian piano annulla l’identità. Ma esiste anche una terza via quella del “controllo del desiderio” cioè una oculata attesa del suo inveramento in altre parole una “educazione emotiva” che nessuna struttura educativa ad oggi è in grado di insegnare. Perché sono state proprio talune emozioni poco controllate alla base del tragico epilogo del ragazzo ucciso: quella della “collera”, quando il sangue affluisce alle mani rendendo più facile impugnare un arma o sferrare un pugno e quella della “paura” quando il sangue affluisce più alle gambe per permettere la fuga mentre il volto impallidisce. Tentare così una ricostruzione di un tessuto sociale più vivibile credo sia diventato impossibile a breve, viste le annose condizioni decisionali che hanno destrutturato la nostra civiltà occidentale diventata ventre molle di una pseudo-democrazia senza alcuna regola. Nel contempo dovremmo astenerci da giudizi affrettati di giustificazione-colpevolezza-assoluzione. Chi è artefice del proprio male pianga se stesso e non mi riferisco al ragazzo morto ma a chi considera buona cosa la liberalizzazione della droga quale medicamento risolutore del malessere di vita sperticandosi in classificazioni del menga come droghe sporche, tipo l’eroina, che anestetizza, la droga pulita, come l’ecstasy, che euforizza, la droga che stimola, come la cocaina, che rende possibili le cose impossibili sostituendo nelle nevrosi il dilemma del permesso-proibito nella antica società disciplinata, e per finire le droghe “leggere” tipo hashish-marjuana ridotte al pari di un bicchier di vino ma che sono perfetto antipasto per le prime “pesanti” perché non può essere l’alcool assimilato al tetraidrocannabinolo(Thc) comunque neuromodulatore e stupefacente. Il malessere nasce dall’assenza del limite e non può essere che la paura venga condannata a favore della collera. Entrambi giustificabili ma per l’esito bisogna vedere che più veloce di grilletto come insegna la vecchia epopea “western” perché, se non vene siete ancora accorti, è qui che siamo tornati per assistere a tanti altri bei film. Per la gioia dei “produttori”. Ahinoi!!

Pescara li 7-3-2020 F.to Arcadio Damiani