
Parliamo senza farci capire. Usiamo meno del 10% dei termini disponibili ed evitiamo concetti complessi. Siamo in piena epoca decadente del “linguistic watheverism” ossia il pressappochismo linguistico di cui per la prima volta ha scritto Naomi Baron, linguista statunitense specializzata nell’evoluzione della lingua dall’avvento dei computer a quello degli smartphone e dei social network. Infatti nella società della comunicazione digitale, dove quest’ultima avviene per immagini che trasmettono significati elementari, usare bene la lingua italiana diventa sempre più difficile e non è incredibile che dei 140.000 lemmi del nostro vocabolario una persona colta ne utilizza al massimo 30.000 frutto della sopravvenuta necessità di essere brevi, specie al telefonino con slogan, frasi codificate, emoticon. Ma in tal modo i concetti complessi vengono evitati e quando bisogna esprimersi in maniera più articolata molti non sono attrezzati per sostenere una conversazione dal momento che non hanno coltivato, ex non usu, multiple connessioni neuronali necessarie in questi casi. E come afferma la sociolinguista Vera Gheno nel suo libro “Potere alle parole” la lingua svolge tre funzioni non accantonabili pena la perdita della nostra umanità: definire se stessi, descrivere il mondo, comunicare con gli altri. La lingua è la nostra maggiore fonte di libertà e più siamo competenti nel padroneggiarle, scegliendo quelle adatte nel conteso in cui ci troviamo, più sarà completa e soddisfacente la nostra partecipazione alla società. Ma cosa vuol dire “competenza” nel maneggiare la parola? Vuol dire semplicemente non essere né fuori tempo né fuori luogo nel senso di quanto attiene al questione presente ma non vuol dire comporre un messaggio omeopatico non chiaro ed inconcludente. A volte messaggi “forti” da qualsiasi fonte provengano vanno sempre ascoltati e mai oscurati perché sono il sale della democrazia e del libero scambio. Prova ne sia che qualsiasi forma di totalitarismo necessita in primis, per un sicuro inveramento, di un attento controllo dell’informazione, dalla televisione, alla carta stampata ed oggi anche al web che, in quanto a censura, sembra non essere seconda ai primi due (vedasi l’oscuramento di Facebook verso CasaPound o verso il grande saggista liberale Marcello Veneziani). Ma le parole valgono sempre e dipende da quanto ci tieni ad esse, come e perché le dici se fanno parte di te, ti incarnano e ti rappresentano perché sono le tue idee, i tuoi sentimenti, la tua visione del mondo, i tuoi valori, in altre parole la “tua faccia” come riporta Vittorio Macioce in un suo articolo. Ancor di più se sei un politico si dovrebbe stare più attenti a quello che si dice perché chi si muove nell’arena della “res publica” deve fare i conti con la differenza fra le parole ed i fatti ed i romani configuravano questa con due sostantivi “auctoritas” e “dignitas”. Elementi questi del tutto scomparsi con raccapricciante evidenza nelle ultime vicissitudini politiche con le parole ridotte ad avanzi del giorno prima che si possono tranquillamente rimangiare il giorno dopo. Ma se il cibo d’avanzo mantiene comunque, se non avariato, la sua nobile funzione nutritiva, le parole espresse dapprima con violenza concettuale e successivamente ridotte a semplice orpello di un momentaneo stato d’animo per poter essere candidamente invalidate rappresentano non un mutamento d’opinione che farebbe parte di una legittima dinamica evolutiva di pensiero, bensì solo una abominevole e scoraggiante espressione di chi coltiva il bene proprio nel disprezzo del bene comune, di chi mistifica il processo democratico come un “advocatio ad se” di una legittimità assolutamente non rappresentativa dei cittadini e della loro volontà. E di esempi sono oggigiorno colmi le colonne dei giornali ad iniziare dal primo Ministro che tranquillamente si fa promotore di un successivo governo al suo stesso ma stavolta con i sodali dell’opposizione o meglio gli scherani contestati appena qualche girono prima. Tutto secondo Costituzione, ma molto lontano da quella “dignitas” che dovrebbe essere alla base dei comportamenti di chi si occupa del benessere di una nazione. L’ex vice premier Luigi Di Maio che mai avrebbe fatto comunella o addirittura compagine governativa con chi si era macchiato di crimini sociali come rivelato dall’inchiesta sugli affidi dei bambini in Val d’Enza esprime la nuova esperienza come “entusiasmante”. Ivan Scalfarotto appena nel luglio scorso si esprimeva “sono costretto ahimè a ribadire che dove c’è il M5s, quelli dell’antipolitica, della demagogia, delle espulsioni, delle fake news e delle aggressioni sulla rete, di Maduro, dei gilet gialli, dei no vax, della decrescita, della galera facile, dei tagli alla stampa, non ci sono io!”. Ora è sottosegretario agli Esteri con il ministro Di Maio. Anna Ascani in merito alla tentazione del Pd zingarettiano affermava “il nuovo segretario immagina per il Pd-network un futuro con i grillini. Noi no. Mai”. Ora la Ascani è vice ministro alla Pubblica Istruzione. Alessia Morani “leggo appelli al Pd finalizzati ad un’alleanza con il M5s. gli elettori ci hanno detto chiaramente che non vogliono vederci di nuovo al governo. Per rispetto delle democrazia gli appelli fateli ai vincitori”. Ora la Morani è sottosegretario dello Sviluppo Economico al governo. Ma queste sono solo pedine del sistema prive non solo della “dignitas” che confligge sonoramente con la moderna attività politica, ma anche dell’ “auctoritas” non avendone alcuna se non al servizio del delfino di turno. La cosa più sconcertante in tutti i sensi è però la trasmutazione omnicomprensiva di uno dei creatori del movimento politico dei 5s, un comico affabulatore di piazza che aveva fatto del “vaffanculismo” verso le nostre Istituzioni il suo mantra ideale e che ha sconfessato il suo “logos” verso il “paraculismo” che certamente non sarebbe piaciuto al suo cofondatore ed ideologo Gian Roberto Casaleggio, nobile visionario amante della democrazia del web al posto di quella parlamentare. Entrambi tuttavia hanno il merito storico di aver avviato una rivoluzione, come descrive molto bene Franco Bechis, maggiore del passaggio dalla prima alla seconda repubblica con l’introduzione del maggioritario e non ci sarebbero mai stati successi tanto rapidi quanto fragili dei due Mattei se non fossero cresciuti ed imbevuti nel brodo grillino come tecnica comunicativa, utilizzo intensivo della rete, temi da cavalcare come riduzione dei costi della politica, taglio delle poltrone, tetto dei 240.000 alle alte dirigenze pubbliche. Il M5s non è stato costituzionalizzato, assorbito da sistema bensì lo ha permeato a suo vantaggio. Ma il capo ortottero invece di godersi la gloria della trasformazione ha optato per una “restaurazione” che ne distrugge la sua stessa essenza con la desiderata del Bis-Conte. Un “indietro tutta” che come non ha funzionato col Titanic alla vista dell’iceberg non funzionerà per il suo salvataggio e di quella della sua compagine elettorale che da anti-sistema dovrebbe trasformarsi in quel sistema da molti combattuto. Ed il simbolo peggiore di questa restaurazione non è l’aver dimenticato in maniera fulminea gli scostamenti programmatici col Pd dal Tav, alle trivelle, alle grandi opere, all’immigrazione, al garantismo della giustizia, ma la proposta di una legge elettorale che ritorni al proporzionale puro con bassa soglia di sbarramento come nella prima repubblica e che rende del tutto ininfluente il voto degli italiani, già abbondantemente vilipeso e misconosciuto con questa legge, verso scelte governative, spersonalizzando le leadership politiche che non sarebbero più rappresentative e decisive nelle scelte dei cittadini. E il problema più temibile che ovviamente il cantastorie non vede è che in questo momento proprio il nostro Paese ha bisogno di un leader che si accolli responsabilità e diventi interlocutore valido e affidabile a difesa di quel poco che ancora resta dei nostri asset economici ed industriali e della nostra bistrattata agricoltura. Ma perché non realizza il fatto che nelle altre nazioni le leadership non si sono affatto spente, anzi!? Hanno tutte espresso un leader capace che se non condivide lo scettro, come Francia o Germania, comunque palesano quella sana autarchia di pensiero e organizzativa che non è prona ai certi diktat sovranazionali e che ha decretato un buon grado di ripresa economica come nei Paesi del gruppo Visegrad o nell’Austria di Kurtz, per non citare l’America trumpiana, o il Brasile di Bolsonaro. Bisogna allertarci perché credo che al peggio non ci sia mai fine. Il sovranismo non è un peccato e difenderlo anche a parole non può essere giudicato inopportuno o addirittura censurabile ma fa parte del rispetto che solo una cultura liberale possiede. Il grande filosofo inglese Roger Scruton ci riporta a quell’”identità” che ama sintetizzare nei due versi del “Faust” di Goethe “ciò che avete ereditato dai vostri antenati guadagnatevelo in modo da poterlo possedere”. Anche queste sono parole che non potranno mai nutrire controsensi o mutazioni genetiche ed il filosofo punta il dito sulla nuova religione dei diritti universali delineati in maniera debole dalle organizzazioni internazionali e sostenuti da una casta europea che si riproduce per cooptazione e si nutre di relativismo culturale che denigra costantemente i sentimenti culturali tradizionali e ripudiando il concetto stesso di fedeltà alla nazione. Per Scruton “difendere l’identità” significa “proteggere la democrazia” e pensare ad un’altra Europa diversa da quella attuale perché si è partecipi quando si può influire sulle leggi da cui si è governati e “…le leggi realizzate ed imposte da chi non è chiamato ad assumere la responsabilità dei propri errori se non addirittura a non riconoscerli come tali…siamo vicino al peggiore dei crimini.”.
Arcadio Damiani