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PENTASTELLATI…

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Non nego l’importanza del Movimento Cinquestelle nell’aver messo pepe nel sedere e ristretto le coronarie a chi ha gestito in maniera indecorosa il nostro beneamato paese negli ultimi anni tanto da diventare il primo partito nazionale senza coalizioni; e non possiamo negare la tumultuosa angoscia di chi dovendo scendere nell’agone elettorale porta con sé un passato storico di cui vergognarsi è dire poco. E sembra una strada in discesa per questi epigoni di onestà tanto alacremente sostenuta da sconfinare nel paradosso. Capisco il loro argomentare ma non comprendo il loro sistema strutturale tutt’altro che indenne da vezzo italico e da un’apicalità che fa temere chiunque abbia un minimo di memoria storica. Se questo movimento raccoglie tanta empatia penso che sia dovuto al basso livello culturale che oramai tutti gli italiani, tranne poche eccezioni, hanno raggiunto e specie fra i giovani frutto di una scuola che indottrina più che educare e favorire le connessioni cerebrali ridotte oramai al tweet lampo ariflessivo che imperversa sul web, fonte principale da cui origina il movimento e loro palestra di confronto, vera cloaca maleodorante zeppa di bufale e messaggi fuorvianti e pilotati. La loro struttura è piramidale, verticale, con decisioni irrevocabili prese dal loro capo, con scarsa propensione alla linea orizzontale più democratica. Ma qui è la loro principale debolezza perché non hanno capito con chi hanno a che fare o forse lo hanno capito benissimo ed utilizzano il modo migliore per governarli: gli italiani sono poco propensi ai diktat e molto amanti del loro orticello! Si ritrovano così deputati e senatori furbetti che hanno donato metà del loro stipendio ben in vista per poi disattivare la donazione a 24 ore di distanza e tra i candidati in lista anche soggetti che farebbero vergognare anche qualche altra coalizione tanto da essere espulsi prima della battaglia come Salvatore Caiata che non aveva informato il movimento alla sua candidatura di un’indagine del 2016 per riciclaggio. E questo può succedere perché non tutti sono buoni samaritani disposti a dividere il mantello che loro spetta e non tutti sono anime sante prestate alla politica solo per redenzione. Tutt’altro! Ma quello che più mi turba di questa “pars politica” è la loro incapacità di fare anche solo i conti della serva, come dice Veneziani, possono essere anche in gran parte onesti ma sono anche in gran parte incapaci di governare come d’altronde attestano le gestioni di grandi città come Torino, Roma, Livorno. Non solo, ma sentire un Di Battista che, dice lui, ha fatto anche il catechista, e presentare candidati di provata fede islamica bellicosa come il Davide Picardo, fautore insieme al padre di una proposta per riconoscere la poligamia nel nostro paese mi fa girare i cosiddetti. Vorrei solo porre all’attenzione di chi si recherà alle urne che corriamo il serio pericolo di finire dalla padella direttamente sulla brace. E la maggior parte dei circa due milioni di musulmani italiani alle votazioni del prossimo 4 marzo voterà per il M5S su indicazione di Davide Picardo, figlio di Hamza Roberto uno dei fondatori della “Costituente islamica”, embrione del partito islamico italiano, che ha anche ammesso che in passato la maggior parte degli islamici votava a sinistra. E l’antropologa musulmana Maryan Ismail, che ha strappato la tessera del Pd ed è confluita nelle fila di Parisi dopo che a Milano hanno preferito eleggere Sumaya Abdel Qader, integralista in area Fratelli musulmani, rivela che i vertici della comunità islamica investono molto sulla comunicazione come lo scrittore Tariq Ramadan, anch’esso proposto dal M5S, e attualmente indagato per molestie sessuali, ebbe a dire, durante la campagna elettorale per il sindaco di Milano, che gli islamici avrebbero dovuto battersi per un “Jihad” nella comunicazione. Inaccettabile! Gli esclusi del movimento farebbero gola sia a Berlusconi che ha offerto loro un tetto come ha fatto anche Pietro Grasso di Leu. Ma anche tra gli inclusi non mancano attriti come Roberto Fico che prende le distanze dallo slogan di Roberta Lombardi, candidata alla guida della Regione Lazio “Più turismo, meno immigrati”. E poi si vantano di presentare prima del voto la lista dei ministri di un loro possibile governo, cosa del tutto impensabile dato che non avranno mai la maggioranza assoluta e che, come dicono, dovranno confrontarsi eventualmente con altri partiti che sicuramente vorranno condividere i ministeri. Un gran casino per dirla tutta. E che dire che potrebbe essere ministro il grillino, stretto collaboratore di Di Maio, Vincenzo Spadafora, in ballo per la guida del ministero della famiglia e dell’infanzia, di cui preoccupano alcune dubbie frequentazioni del passato e, soprattutto, le sue aperture alle adozioni gay all’epoca in cui era Garante per l’Infanzia? Un’analisi ben strutturata e di ampia riflessione l’ha fatta Luca Ricolfi famoso sociologo italiano in merito alle proposte grilline con un articolo su “Il Messaggero” riguardo il “reddito minimo”. L’idea è di garantire a chiunque, indipendentemente dal fatto di lavorare o meno, il raggiungimento di un reddito familiare pari alla soglia di povertà relativa, che attualmente in Italia è di oltre € 1000 per una famiglia di due persone e di € 1500 per una di tre persone. La misura fondamentale, riguarda tre categorie di soggetti. Chi lavora e guadagna meno della soglia di povertà. Chi è disoccupato e cerca un lavoro. Chi si trova nella condizione di pensionato, di casalinga o di inoccupato con un reddito familiare inferiore alla soglia. Ma va detto anche che se l’idea è affascinante il costo è molto elevato e le stime oscillano tra i 15 e i 30 miliardi con un costo annuo di circa 20 miliardi pari ad una manovra finanziaria permanente. Come dire che una volta impegnati questi soldi null’altro si potrà fare né abbassare le tasse, né incentivare l’occupazione gli investimenti. Inoltre non va dimenticato il possibile disincentivo a lavorare. Infatti il sociologo si chiede perché mai un occupato a tempo parziale a € 500 al mese dovrebbe continuare a lavorare se ne può guadagnare quasi 700 non facendo nulla? Certo si può obiettare che in realtà il diritto al reddito di cittadinanza si perde se non si rispettano determinati obblighi come la ricerca di un lavoro, la formazione, la disponibilità a lavori socialmente utili e soprattutto se si rifiutano le offerte di lavoro. Ma qui salta evidente l’inghippo perché chi ha un reddito di cittadinanza può rifiutare ben tre offerte di lavoro e arrivato alla quarta, può eccepire che l’offerta non è “congrua”, termine questo specificato nei minimi dettagli nel comma 2 dell’articolo 12 del disegno di legge pentastellato: un’offerta di lavoro è considerata congrua se è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario; la retribuzione oraria è maggiore uguale all’80% di quella riferita alle mansioni di provenienza; il posto di lavoro raggiungibile in meno di un’ora e 20 minuti con i mezzi pubblici. Tutte condizioni che devono essere soddisfatte congiuntamente altrimenti l’offerta non è congrua. E non ci vuole molta fantasia per immaginare le conseguenze vista l’enorme burocrazia dei funzionari pubblici pagati per gestire questi 9 milioni di beneficiari che potranno rivolgersi al Tar per far valere le loro propensioni: in tal modo si ridurrebbe ulteriormente l’offerta di lavoro che in Italia già patologicamente bassa rispetto a quello delle altre economie avanzate. Ma l’aspetto più inquietante come sottolinea Ricolfi è l’ ”iniquità” del reddito minimo. Essendo basato sul reddito nominale, anziché sul potere d’acquisto, non potrà che creare nuove disuguaglianze ed infatti l’Istituto Bruno Leoni propone come misura equa il “minimo vitale” che dovrebbe basarsi sul reddito in termini reali e non sul reddito monetario, le famose gabbie salariali. Per non parlare infine di un altro squilibrio. L’iniezione nell’economia di 20 miliardi di sussidi all’anno sulla base del reddito nominale dichiarato è strutturalmente una misura pro evasori perché beneficerebbe chi guadagna abbastanza ma dichiara poco o nulla e taglierebbe fuori che guadagna poco ma ha dichiarato tutto. Si potrebbe quindi obiettare che questo reddito minimo possa compensare il fatto che la formazione dei posti di lavoro è lenta che stanno sparendo molti mestieri e occupazioni e che i robot e l’intelligenza artificiale stanno sostituendo il lavoro umano. È già Keynes fin dagli anni ‘20 aveva previsto che se il monte ore totale di una società tende a contrarsi è logico che la maggioranza non lavori e che sia la mamma Stato a provvedere agli sfortunati che dal lavoro saranno esentati. In Italia in particolare è già così fin da circa mezzo secolo fa quando per la prima volta venne denunciata da un manipolo di studiosi e politici coraggiosi come Ugo La Malfa Franco e Reviglio e Giorgio Galli. Analisi tanto memorabili quanto inascoltate. Ed il sociologo chiosa con due osservazioni. La prima è che se ci piacerebbe davvero che il lavoro fosse il destino di una minoranza di super efficienti, competitivi, cui spetta, attraverso la mano pubblica, mantenere tutti gli altri. La seconda è quella dell’ovvio paragone con altri paesi. Perché se guardiamo l’evoluzione nelle altre società avanzate scopriamo che oggi hanno un tasso di occupazione più alto di quello nostro o di 10 anni fa? Ciò significa che l’automazione, l’intelligenza artificiale, la globalizzazione non bastano a spegnere le energie di un paese vitale che vuole continuare a crescere e prosperare. Perché allora non creiamo quei presupposti culturali informativi preparatori che consentano di avere una classe lavorativa all’altezza dei tempi più che continuare come facciamo da mezzo secolo a puntare tutte le nostre carte sullo Stato assistenziale? Perché è molto più semplice e meno faticoso avere i figli vicino per controllarli meglio più che fornire loro quell’autonomia di pensiero con la quale possono gestire al meglio il mondo e la globalizzazione.