Mostra del Cinema di Venezia 2025, il film d’apertura sarà La Grazia di Paolo Sorrentino

Sorrentino apre Venezia 2025 con La Grazia, film intenso con Toni Servillo. Un’opera poetica che inaugura la Mostra del Cinema.

Sorrentino apre Venezia 2025 con La Grazia

“Il cinema è l’unica arte capace di afferrare la realtà.” – François Truffaut
“Il cinema è un’avventura mentale che si sviluppa in immagini in movimento.” – Orson Welles

La 82ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia si aprirà con la prima mondiale de La Grazia, il nuovo, attesissimo film di Paolo Sorrentino. La proiezione inaugurale, prevista per il 27 agosto nella prestigiosa Sala Grande del Palazzo del Cinema al Lido, promette di essere uno degli eventi più significativi dell’anno cinematografico.

Sorrentino apre Venezia 2025 con un film sulla solitudine e la memoria

La Grazia rappresenta il ritorno in concorso di uno dei registi italiani più amati e riconosciuti a livello internazionale. Dopo È stata la mano di Dio e Parthenope, Sorrentino prosegue il suo percorso artistico con un’opera che, secondo le prime indiscrezioni, si addentra ancor più nel cuore delle sue ossessioni: la bellezza, la memoria, la solitudine e l’irriducibilità dell’esperienza umana.

La trama e il cast: Toni Servillo ancora protagonista

Protagonista di La Grazia è Toni Servillo, alla sua settima collaborazione con Sorrentino, in un ruolo intenso e stratificato. Servillo interpreta un uomo in crisi esistenziale che intraprende un percorso di redenzione e consapevolezza, attraversando paesaggi dell’anima tanto quanto reali. Al suo fianco, Anna Ferzetti offre un contrappunto emotivo e narrativo essenziale, dando vita a un personaggio femminile forte e insieme vulnerabile.

La narrazione si sviluppa in modo non lineare, affidandosi più alla suggestione visiva e sonora che a una classica struttura drammatica. Come spesso accade nel cinema di Sorrentino, è la forma a prevalere sul racconto, in un flusso di immagini, movimenti e silenzi che evocano più che spiegare.

Sorrentino apre Venezia 2025. Un nuovo sguardo visivo: cambia il direttore della fotografia

Con La Grazia, Paolo Sorrentino conferma la collaborazione con Daria D’Antonio, che ha preso il posto dello storico direttore della fotografia Luca Bigazzi. Il cambio è avvenuto già con È stata la mano di Dio, segnando un passaggio importante nello stile visivo del regista.

Bigazzi, con il suo approccio sontuoso e formale, ha plasmato l’estetica sorrentiniana degli anni d’oro, rendendola riconoscibile in tutto il mondo. D’Antonio porta invece un’energia nuova, più intima e naturale, con una fotografia che lascia filtrare l’imperfezione, la luce sporca, il colore della realtà. Il suo sguardo accompagna Sorrentino in una fase più autobiografica e riflessiva del suo cinema, dove il lirismo non rinuncia alla verità emotiva.

Parthenope: l’opera della maturità emotiva

La Grazia arriva dopo Parthenope, altro film cardine della recente filmografia di Sorrentino, presentato anch’esso a Venezia nel 2024. In Parthenope, il regista aveva messo in scena una Napoli immaginata e idealizzata, filtrata dallo sguardo di una giovane donna, simbolo di un’Italia perduta e desiderata. Era un’opera più aperta al femminile, rarefatta, quasi contemplativa. Un inno alla giovinezza e alla malinconia, alla bellezza che svanisce mentre la si guarda.

Quel film, pur meno dirompente rispetto ad altri, ha segnato una svolta nel modo in cui Sorrentino rappresenta il desiderio, il tempo, la città. Non più solo lo sfarzo e il cinismo della mondanità, ma il silenzio, la nostalgia, l’infanzia, la memoria. Parthenope ha mostrato quanto il regista sappia, oggi più che mai, mettere in crisi il proprio stile, rinnovarlo, scavarci dentro.

Le influenze: tra grandi maestri e una voce inconfondibile

Il cinema di Paolo Sorrentino è profondamente personale, a volte definito “autoreferenziale”, ma è proprio questa insistenza sul proprio universo stilistico a renderlo unico. Sorrentino non ha mai nascosto i suoi riferimenti: piuttosto li ha incorporati, reinventati, trasformati.

Tra gli autori che lo hanno influenzato più radicalmente spiccano Federico Fellini, nel gusto per il grottesco e il surreale; Michelangelo Antonioni, nella rappresentazione del vuoto e dell’alienazione moderna; Ingmar Bergman, per l’ossessione del dubbio e del silenzio interiore; Martin Scorsese, che gli ha trasmesso il ritmo del racconto visivo e il montaggio come cuore emotivo; e Orson Welles, dalla cui visione smisurata ha ereditato l’ambizione di un cinema totale, labirintico, in cui l’immagine è pensiero e memoria, sogno e architettura.

Tutti questi riferimenti non sono mai semplici omaggi, ma fili vivi che tessono la stoffa profonda del suo cinema: un cinema che si racconta senza raccontare, che mostra l’anima senza descriverla.

Come dovrebbe essere il cinema

La Grazia, come Parthenope, ci ricorda cosa può essere il cinema quando sceglie la via dell’onestà artistica: uno spazio in cui l’autore si espone, rischia, scava, si racconta. Un linguaggio che non si limita a intrattenere, ma pretende di emozionare, interrogare, far vacillare le certezze.

Il cinema dovrebbe essere così: capace di sorprendere e di durare. Dovrebbe non avere paura di essere poetico, lento, enigmatico. Dovrebbe cercare la bellezza non nella perfezione, ma nell’autenticità. Dovrebbe essere un luogo in cui anche il dolore ha voce, in cui anche il silenzio racconta.

Come accade con Giuseppe Tornatore, che costruisce un’epica della memoria e della nostalgia; con Gabriele Salvatores, che ha saputo attraversare il genere per raccontare l’Italia invisibile; con Ferzan Ozpetek, maestro dell’intimità e del non detto; con Luca Guadagnino, che ha restituito al cinema italiano un respiro internazionale, sensuale, raffinato.

E come accade – con ostinata coerenza e lucida follia – nel cinema di Paolo Sorrentino: fragile e grandioso, personale e universale, ossessivo e meraviglioso. Un cinema che si ricorda.

Italo Nostromo: Lettera d’amore al cinema

Ero in fasce. In braccio a mia madre.
Il buio della sala era tutto attorno, come un mistero denso e calmo.
E sullo schermo le cose si muovevano, senza toccarmi, ma mi scuotevano dentro.
Un volto gigante, una porta che si apriva, un cielo troppo azzurro per essere vero.
Sgranavo gli occhi, non capivo, ma vedevo. E quel vedere era già sentire.
Il cinema è stato la mia prima lingua muta.
Non mi ha mai spiegato nulla, ma mi ha insegnato tutto.
Mi ha dato il silenzio che serve per ascoltare, la luce che rompe l’ombra,
il tempo per restare fermi davanti a ciò che scorre.
E ogni volta che entro in una sala, non vedo un film:
rivedo quel primo buio e quella luce che tremava.
Le braccia di mia madre che mi stringevano,
il suo profumo di talco e di spighetta che mi avvolgeva come un’armonia.
E penso che il cinema, quando è vero,
non è altro che l’infanzia dell’anima che torna a guardare il mondo per la prima volta.

di Carlo Di Stanislao

La Redazione de La Dolce Vita
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