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Storia della medicina: i virus

Anche se furono gli egizi i primi a praticare l’arte medica, forti dell’esperienza nelle pratiche funerarie che prevedevano la dissezione dei cadaveri come preparazione alla mummificazione, furono invece gli antichi greci che svilupparono maggiormente questa disciplina nel corso degli anni. Le prime scuole si svilupparono in Grecia e nella Magna Grecia (Sicilia e Calabria) e da lì fino a Roma dopo la conquista della penisola ellenica. Gli antichi romani erano molto attenti all’igiene e al rispetto del corpo e non avendo ancora una vera e propria scuola di medicina si rivolsero alla manodopera straniera seguace soprattutto degli insegnamenti di Ippocrate. Siamo agli albori della medicina ritenuta ancora teurgica (in cui la malattia era considerata un castigo divino) ma già si aprivano ampi spiragli verso una terapia meno filosofica e più efficacie.

Nel 229 a.C. lo stato romano diede incarico al medico greco Archagathus di fornire un servizio ambulatoriale al popolo romano acquistandogli un ambulatorio dove poter svolgere la sua attività e dandogli la cittadinanza romana (Jus Quiritium cioè i privilegi di un nativo di Roma). Questa prima esperienza di “medico della mutua” non andò proprio tanto bene, un po’ per il carattere del medico greco-romano ritenuto un po’ troppo rude nei modi e per l’uso improprio di purghe e tecniche chirurgiche ritenute dai poveri malcapitati … “abbastanza” dolorose. Ricevuto in prima istanza con grande rispetto successivamente fu “licenziato” e al suo posto vennero chiamati altri colleghi medici sempre greci. In quel periodo a Roma fare il medico era considerato disdicevole, una attività che poteva fare solo uno straniero, e siccome la Grecia, dopo la conquista romana, era poverissima per le numerosissime guerre che l’avevano dilaniata, ci furono numerosi medici che si vendettero come schiavi per poter andare a Roma ad esercitare la propria arte. Molti di questi divennero famosi e si comprarono la libertà, divenendo dei liberti.

Nei trecento anni successivi la conoscenza medica crebbe notevolmente a Roma e in tutto l’impero grazie soprattutto al gran numero di malati e feriti da armi da guerra che l’espansione dell’impero romano comportava e alla notevole pratica sul campo che i nuovi medici potevano acquisire. Uno dei maggiori conoscitori dell’arte medica fu Galeno, medico greco di Pergamo, studiò medicina per dodici anni e lavorò come medico alla scuola dei gladiatori facendo esperienza sui traumi e le ferite. Nel 162 si trasferì a Roma preceduto dalla sua fama di guaritore e divenne medico dell’imperatore Marco Aurelio, Commodo e Settimio Severo. Purtroppo quel periodo storico fu flagellato dalla più grave epidemia dell’epoca romana: il vaiolo, anche definita la “peste di Galeno” o “aureliana”.

Ebbe inizio a metà del 165 d.C., quando sedici legioni romane, guidate da Lucio Vero, penetrarono nel Regno dei Parti (Persia),  un territorio che si estendeva dall’Eufrate (odierna Turchia sud-est) all’ Iran orientale ed era attraversata dalla Via della Seta che collegava l’impero romano nel bacino del Mediterraneo e l’impero Han della Cina. L’ origine della pandemia fu cinese e si propagò a causa di una teca d’oro, proveniente dalla Cina, in transito a Babilonia, accidentalmente aperta da un soldato. Immediatamente dal tempio di Apollo, dove era conservata, il virus si diffuse prima nella città babilonese e da lì in tutto l’impero. La peste giunse presto a Roma causando molte migliaia di vittime, molte anche tra personaggi di alto rango, ai più illustri dei quali Antonio fece erigere statue tanta era la sua clemenza che volle che i funerali della gente del popolo si facesse a spese dello Stato. Confinato ad Aquileia Marco Aurelio convocò da ogni luogo sacerdoti per incentivare l’esecuzione di riti purificatori: era infatti convinto che la peste fosse imputabile all’ira divina e provocata dai cristiani che perseguitò perché non adoravano gli dei romani.

L’epidemia si protrasse anche dopo la morte di Marco Aurelio: nel 189 morivano fino a duemila persone al giorno, secondo la testimonianza di Cassio Dione (un milione di morti in totale). Alcuni papiri ci informano che il numero di contribuenti registrati nei villaggi egiziani diminuì fino al 93%, segno dello spopolamento di una delle aree più vitali dell’impero; in Italia crollarono le costruzioni pubbliche, i congedi dei soldati si azzerarono nel periodo 167-180 e l’emissione monetaria fu alquanto limitata sia a Roma che in Egitto. Per far fronte allo spopolamento così repentino di interi territori Marco Aurelio e i suoi successori consentirono alle popolazioni barbariche di stanziarsi entro i confini dell’impero, avviando un processo di assimilazione culturale. Secondo alcuni storici l’epidemia fu la principale causa del declino dell’impero romano.