
Il giustizialismo grillino a mezzo del suo epigone ministro della giustizia Alfonso Bonafede conferma l’intenzione di proporre una legge più severa e punitiva per gli evasori fiscali prevedendo per loro oltre una grande pena pecuniaria anche il carcere come “svolta culturale ed educativa”. Fa il paio in questi giorni, su invito della Cedu( Commissione europea per i diritti umani) anche la decisione della Corte Costituzionale di togliere il carcere a vita per i mafiosi o terroristi conclamati e non pentiti. In soldoni pene più severe per chi evade e pene più morbide per chi uccide, compie stragi, organizza il traffico di droga. Per loro viene abolito il cosiddetto ergastolo “ostativo” cioè il “fine pena mai” in quanto viene meno secondo la Corte Europea lo spirito rieducativo della pena inflitta e la speranza di ritornar “veder le stelle”. Altra svolta culturale è l’incentivazione all’uso dei pagamenti elettronici col beneficio di una lotteria o di un minimo rimborso postumo ancora da definire nei tempi. Queste “svolte culturali”, a tratti incomprensibili, non possono che evocare alcune riflessioni spicciole da parte del cittadino non esperto in materia economica o giurisprudenziale. E partiamo dall’ergastolo introdotto negli anni ’90 in un pacchetto di leggi speciali per fronteggiare l’emergenza terroristica e mafiosa, che certamente sospendevano alcune garanzie costituzionali come in tutte le condizioni di emergenza ove allo Stato viene dichiarata guerra con le stragi ed il malaffare ma che comunque avevano prodotto enormi vantaggi in tema di lotta alle cosche tramite collaborazioni confessionali dei pentiti incarcerati, in quanto unica via d’uscita per una futura liberazione. E proprio in quegli anni numerosi “boss” furono scovati e catturati. Ad oggi sinceramente di questa misura più lenitrice non se ne sentiva sinceramente bisogno anche perché dovremmo concludere che stia finendo l’emergenza terroristica e mafiosa e non mi sembra proprio stia succedendo date le numerose manette che stanno scattando per tutte quelle associazioni che si occupano dell’accoglienza dei migranti, intascandone i sussidi statali e maltrattandoli con misere condizioni igienico abitative, con l’ingresso e stabilizzazione territoriale di quella importata “mafia nigeriana” che diversamente dalla nostra appare molto più feroce e determinata con “consuetudini” socio-religiose del tutto tribali a noi sconosciute e di difficile tenuta a bada. Per non considerare i terroristi islamici che non finiscono di minacciare la nostra civiltà occidentale con i loro attentati in tutto il continente europeo. A meno che non si voglia ribattezzarle eufemisticamente con il termine più blando di “associazioni a delinquere” i cui frutti tuttavia sono molto simili in morti ed efferatezze e mi ricorda tanto la differenza fra “zuppa” e “pan bagnato”. Ma essendo il Paese della più fine ed intrigante legislazione non potevamo non intervenire anche in questo caso con “distinguo” che se non hanno dell’illogico almeno del ridicolo. Perché alcuni importanti giuristi hanno decretato che per i benefici più importanti come gli sconti di pena e la semilibertà i divieti rimangono e per avere i “permessi premio” i detenuti mafiosi dovranno superare l’esame di un giudice che valuterà se i loro legami col mondo del crimine sono ancora in piedi. E riguardo al mancato “pentitismo collaborativo” (uno dei pilastri dell’ articolo 4 bis) sembra ci sia un’adeguata giustificazione nell’evitare future vendette personali o familiari. Quindi di nuovo il ricorso alla “umana soggettività” del giudice che si farà garante della “redenzione” malavitosa del mafioso e credo che non ci sia da stare allegri data la manica larga premiale di una magistratura che non paga pegno se il reo, liberato, poche ore dopo uccide. Cosa che non succede la medico che se manda a casa dal Pronto Soccorso un paziente che dopo poco muore viene indagato e processato con l’infamia di un singolo episodio che manda in mona una sua pur brillante carriera entrando in una “black list” assicurativa che lo priva di un futuro supporto. E poi su quali basi psico attitudinali si può evincere la reiezione del mafioso verso quell’organizzazione criminale di cui faceva parte se pensiamo a quanto siano lunghe, costose ed estenuanti le sedute psicoanalitiche per limare solo alcune propensioni cognitivo-comportamentali? Come diceva Antonio Razzi “io questo non credo” riferendosi alla dittatura nordcoreana. Anche se volessimo concludere che tutti i criminali siano uguali e che pertanto a nessuno dovrebbe essere negata una possibilità di riscatto ma andrebbe considerata anche la diversa causale delittuosa. Perché non può essere paragonabile chi per un attimo di follia vessato da una precaria condizione socioeconomica uccide anche per un semplice scippo o per un amore non futuribile da chi sceglie un “modus vivendi” da cosca malavitosa o terroristica che non si fa scrupoli nello sciogliere un bambino nell’acido e di “impilonargli” nel cementizio il genitore lungo un viadotto o di fare una strage di inconsapevoli innocenti durante una rappresentazione teatrale o una passeggiata lungo il viale, da chi “smonta” i corpi di bambini per venderne gli organi, da chi spaccia droghe mortali. Mi spiace ma come in natura e nell’industria il prodotto “malfatto” viene isolato o “svenduto” o “rimpastato”. E cosa dire della lotta all’evasione fiscale con la severità del carcere se nel contempo si depenalizza il reato la cui condanna è inferiore ai tre anni e fra questi lo “stupro” uno dei reati più abominevoli per gli immancabili strascichi che lascia alla vittima? E’ veramente deprimente assistere a questa nuova folata giustizialista verso gli evasori fiscali che peraltro nel tempo, più volte indicata come crociata salvifica per le casse dello Stato, non ha mai sortito gli effetti desiderati per tutte quelle ragioni che anche chi non si occupa del campo ha visto o vissuto. Ammesso che come afferma Carlo Nordio “nulla è più pernicioso in uno Stato civile dell’impunità di chi non paga le tasse” andrebbero definiti tuttavia i ruoli probanti dello Stato e dell’evasore. Innanzitutto il reato fiscale del contribuente infedele è di valutazione dannatamente difficile visti gli accertamenti delle agenzie delle entrate e della Gdf che vengono ridotti o annullati dalle Commissioni tributarie. Ne consegue che da circa 40 anni(1982) le manette agli evasori sono scattate poche volte, per breve tempo e con galere mai viste al contrario di quanto successe ad Al Capone finito dentro non per i delitti commessi ma per “reato fiscale”. Inoltre abbassando la soglia di punibilità (centomila euro) la pena appare del tutto sproporzionata evocando successivamente una certa indulgenza da parte del giudice ossia a pena eccessivamente alta quella irrogata sarà tendenzialmente bassa. Per non considerare che se scatta una denuncia penale le procure e i tribunali si intaserebbero di processi e viste le lungaggini e i vari gradi di giudizio, oltre che l’enorme massa dei rei papabili, non ne usciremmo più. E l’ex magistrato conclude saggiamente che l’evasione tributaria non si combatte con l’aumentare dei “secondini” delle galere ma la professionalità degli addetti agli accertamenti e soprattutto semplificando e razionalizzando una normativa a dir poco demenziale. E qui entra in ballo lo Stato che con le sue ridicole ed ingarbugliate leggi non permettono anche al contribuente più onesto di dormire sonni tranquilli inducendo i grandi evasori a gestire i loro capitali in più sereni paradisi fiscali europei ed extra UE. Viene così meno il cardine del rapporto equilibrato fra Stato e cittadino col primo che insegue ed il secondo che fugge. Allora bisogna assolutamente cambiare il “format”. Innanzitutto l’imposta dev’essere “sopportabile”, non può esistere che su cento euro di introito ne devo versare il 43% all’Irpef e poi un eventuale 22% di Iva sul bene di consumo e infine il sistema tributario deve rifondare il rapporto di fiducia fra cittadino e fisco. Come affermava Vanoni “creare attraverso una persuasione politica e morale un clima nel quale si stente che difendendo la razionale applicazione dei tributi, si difende non una legge dello Stato, ma l’essenza stessa della vita dello Stato”. E come riporta Enrico De Mita gli italiani per la mancanza, dovuta a ragioni storiche, di consuetudine con la democrazia non sono riusciti ad identificarsi con lo Stato come in “illo tempore” rimarcato dal Gobetti “In Italia il contribuente raramente ha sentito la dignità di partecipare alla vita dello Stato; non ha la coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta”. Al contrario del mondo anglosassone dove vige il dogma “no taxation without representation” ossia cosa ci fa lo Stato con i nostri soldi? Pagare per non avere granché? Sarebbe più igienico non aprire questo altro fronte! E veniamo all’ultima “svolta culturale” quella dell’incentivazione dei pagamenti elettronici elevata a misura anti evasione spicciola. Già con la “fatturazione elettronica” nello scambio fra imprese e consumatore pur con dei distinguo la misura sembra essere equa e non contestabile. Ma il pagamento elettronico con i bancomat e carte di credito non mi sembra una misura equilibrata e non criticabile. Innanzitutto perché si fa un favore alle banche per gli introiti delle commissioni (su 80 euro complessivi pagati col POS le commissioni sono pari a 5 euro e non mi sembrano pochi) e non al contribuente che comunque deve denunciare l’introito di 80 euro e non di 75 come effettivi. Cosicché di transazione in transazione alla fine degli 80 euro non resterà più nulla. Se invece si togliessero le spese delle commissioni un pensierino si potrebbe farlo. Ma non sarebbe neanche questo il danno maggiore. La più grande disgrazia che si porta dietro il pagamento elettronico è la “tracciabilità” ma non per il fisco, che sarebbe la cosa giusta, ma per i detentori dei “Big Data” che invadono la nostra sfera privata privandoci di quella libertà che è “si cara come sa chi per lei vita rifiuta” dalla parole di Virgilio nel Purgatorio dantesco. Ed il presidente del centro studi Itinerari previdenziali, Alberto Brambilla”, afferma “criminalizzare il contante è inutile, bisogna aumentare la possibilità di scaricare le spese domestiche: portiamola al 50%. La tracciabilità totale alla lunga deprimerà i consumi”. Perennemente osservati e come allegramente annota Vittorio Feltri “ sarebbe assurdo che in un Paese che va a puttane non fosse lecito per un cittadino pagare di “sfroso” una mignotta”. Ed è questo “mercatismo” per dirla alla Tremonti che ha aspetti francamente delittuosi che ci spaventa. Non fai a tempo a cercare in Internet la parola “fotovoltaico” che sulla propria e-mail fioccano offerte a riguardo. La trasparenza dei consumi fa di noi cittadini sudditi come in Cina ed in altri regimi dittatoriali. E che fa il paio con la proposta di Beppe Grillo di togliere il voto agli anziani che potrebbero essere contrari alla spinta globalizzatrice dei mercati. E poi perché penalizzare l’uso del “contante” o “cash” quando in altre economie avanzate come in Germania o negli Usa non vi è limite al loro utilizzo? Ed è proprio il contante che ci ha salvato dalla crisi dei muti subprime con banche all’aria e i morsi della recessione. Perché pochi, me compreso, conoscono bene termini come rischio-rendimento, diversificazione, interessi composti ed allora il “cash” resta l’amatissimo strumento contro l’insicurezza ed i soldi tenuti fermi sui conti correnti bancari non vanno tassati più delle risorse destinate all’economia reale.
Arcadio Damiani