La Treccani distingue i due termini nel senso che il “vile” è colui che per mancanza
di coraggio fugge davanti al pericolo o accetta con pusillanimità sopraffazioni e
ingiustizie; “vigliacco” è colui che oltre quanto sopra agisce con arroganza e
prepotenza contro chi è più debole e quando sia anche certo di restare impunito,
come infierire vigliaccamente su una popolazione inerme. Nel 1530 sui monti
pistoiesi avvenne lo scontro fra le truppe guidate dal condottiero Francesco
Ferrucci al servizio della repubblica di Firenze e quelle di Fabrizio Maramaldo alle
dipendenze degli Spagnoli. Ferrucci gravemente ferito fu portato al cospetto del
comandante superstite Fabrizio Maramaldo, un mercenario calabrese a capo
dell’esercito d Carlo V, che per vendicarsi delle numerose sconfitte da lui ricevute, lo
trafisse a morte contro tutte le regole della cavalleria, ma prima di morire riuscì a
gridargli in faccia la celebre frase “vile, tu uccidi un uomo morto”, in quanto aveva
infierito su un uomo incapace di difendersi. In riferimento a quell’episodio oggi si
usa il verbo “maramaldeggiare” per biasimare chi approfitta dei più deboli. E sono
stato coinvolto emotivamente a riscoprire questo concetto nel vedere la suora
cattolica missionaria saveriana birmana in ginocchio davanti alle forze di polizia
supplicandole di non sparare sui giovani manifestanti che protestavano
pacificamente per il colpo di Stato ai danni della reggente dell’ex Birmania, oggi
Myanmar, San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, democraticamente
eletta. Non ha atteso le risoluzioni dell’ONU che, a parole, ha minacciato la giunta
militare di “possibili gravi conseguenze”, dato che ha già sulle spalle morti, feriti ed il
blocco di Internet. Ma l’azione della suora ha sorpreso quelli che si aspettavano il
peggio perché la polizia, al vedere la supplica della religiosa, si è fermata e più di
cento manifestanti hanno potuto trovare riparo nel suo convento. Comportamento
d’altri tempi al pari di Salvo D’Acquisto il 23enne brigadiere che nel 1943 si
autoaccusò di un improbabile attentato per lo scoppio fortuito di una bomba che
uccise due militari delle “SS” per salvare la vita ai 22 ostaggi rastrellati che in assenza
di un responsabile andavano passati per le armi per rappresaglia. Figure oggi del
tutto scomparse, non previste nel novero degli attuali viventi. Come mai? Perché
nessuno educa al coraggio e così siamo diventati tutti dei gran vigliacchi e non c’è
necessità di elencare occasioni di codardia in quanto è prassi comune nell’attuale
vita sociale. Anzi chi mostra coraggio viene definito “fuori di testa”, “fuori tempo e
luogo”. Don Abbondio era un “vaso di coccio tra vasi di ferro” avendo avuto la
sfortuna di vivere in tempi difficili in cui il coraggio è una virtù che pochi possono
permettersi specie se lo scopo principale è quello di sopravvivere più che di fare
l’eroe. Ultimamente la casa editrice Einaudi ha ristampato un brillante saggio sul
tema dello storico Peppino Ortoleva “Sulla viltà. Anatomia di un male comune” ove
l’autore rileva che l’essere vili o meno alla fine è sempre frutto di una scelta e scopre
che questo male che attraversa l’umanità, presente in tutte le epoche e in culture
diverse, ha conosciuto una trasformazione nel tempo: se la “viltà degli antichi”
toccava diversamente i nobili e i plebei, le donne e gli uomini, quella dei “moderni”
si è trasfusa sull’intera società, dando vita a nuove dinamiche di potere, secondo le
quali bisogna rincorrere l’opinione corrente e non osare dichiarare scomode verità,
spesso creando confusione semantica ed etica fra coraggio e aggressività, arroganza
e spudoratezza. La giornalista Caterina Maniaci osserva che a nessuno piace essere
definito vigliacco, vile o codardo, parole cariche di disprezzo e di condanna che
stigmatizzano il soldato che fugge in guerra, così come in un rapporto affettivo si
sottrae alle proprie responsabilità, o a quelli che se la prendono con persone più
fragili, incapaci di difendersi. Oggi, grazie alla Rete e ai social, si attacca con ferocia
proteggendosi dietro lo schermo di un computer. Eppure ha scritto Kierkegaard
“Chiunque si sforzi di conoscere davvero se stesso dovrà ammettere di essersi non di
rado colto a mostrarsi codardo” e fa il paio in maniera sottile ma sintetica ed
illuminante Albert Einstein “Il mondo è un posto pericoloso non solo a causa di quelli
che compiono azioni malvage ma per quelli che osservano senza fare nulla”. E
Marcello Veneziani si chiede giustamente come definire quindi quei magistrati che
erano al corrente del “Sistema” denunciato da Luca Palamara nel suo libro
intervista, conoscevano quei metodi, quei veti, quelle omissioni, quei killeraggi e
quelle disparità di trattamento tra compagni da salvare e nemici da sfasciare,
avevano possibilità di denunciarli o almeno dissociarsi e non lo hanno fatto?
Semplicemente “vigliacchi”! Al pari degli storici ed accademici che assistono allo
scempio continuo della ricerca della verità, in virtù di leggi liberticide, “cancel
culture” e “politically correct” e sanno benissimo che la storia andò diversamente (v.
Foibe o il genocidio degli armeni o il ruolo dei partigiani nella liberazione) rispetto
alle verità ufficiali imposte dal “domino ideologico” imperante e pur avendo la
possibilità e l’autorevolezza per confutare e denunciare quei misfatti, hanno
preferito tacere. Al pari di quegli intellettuali, giornalisti, direttori di testate, che
lasciano alterare la realtà delle cose conformandosi a ciò che il main stream
pretende che venga raccontato pur sapendo che danno voce solo a potenti e palloni
gonfiati che assicurano loro lo stipendio editoriale escludendo tanti battitori liberi
con le loro tesi ed opere non conformi al potere. Potrebbero dissociarsi dal clima
ideologico-mafioso denunciando le storture del sistema ed invece non lo fanno. Al
pari di quei sacerdoti, teologi, vescovi che notano la disfatta della loro fede, la
ritirata della loro religione dal mondo, cedimento ad altre religioni e subordinazione
all’ateismo dominante, il disagio dei credenti rispetto a certe posizioni in rottura con
la tradizione cattolica ma tacciono, non testimoniano la verità, non hanno il coraggio
di dire le cose come stanno e cosa realmente pensano della riduzione socio-
umanitaria, mediatica, etico-ecologica della loro fede. E si potrebbe continuare
attraversando tutti i luoghi del potere, da quello politico a quello economico,
imprenditoriale, finanziario fino a quello scientifico e sanitario, alla lotta al
terrorismo e alla criminalità organizzata. Nessuna sfera organizzativa, istituzionale
umana esclusa! Ma non parliamo dei disonesti, dei delinquenti che abusano,
falsificano, rubano, violentano la realtà, il prossimo, commettono crimini, reati e
ingiustizie, questo c’è sempre stato nella storia dell’uomo fin dai primordi della sua
esistenza. Parliamo oggi di una civiltà cosiddetta “avanzata” che nel tempo ha
messo freno allo svolgersi del tribalismo sociale e che si ammanta o si nasconde
dietro l’eponimo di “democratica” ma che continua a profilare nella sua architettura
personaggi “ad usum” che omettono la loro “mission” di controllo spegnendo le
telecamere a vista, evitando di prendere la difesa delle vittime e degli abusati del
sistema. Vigliacchi! Lo fanno per quieto vivere, per non avere fastidi, per salvarsi
individualmente (v. i magistrati coraggiosi ed uccisi), per proseguire indisturbati
nella loro carriera, per non mettersi contro e non perdere i vantaggi e i privilegi della
loro situazione, ricavati dalla omertà, omissione di soccorso, distrazione. Per lunghi
mesi abbiamo assistito, tranne poche voci isolate di aspra critica, ad una
celebrazione costante di Domenico Arcuri il super-commissario polivalente
dell’emergenza, con le sue interviste “indirizzate e senza domande urticanti”.
Ebbene, dopo la sua cacciata dal ruolo per provata truffa ed inefficienza del suo
operato (mascherine, siringhe, vaccini, banchi a rotelle, Ilva) grazie ai miracoli che
può fare solo il “cambio di regime” ecco che quel gigantesco apparato mediatico si
è improvvisamente rivoltato contro l’ ”eroe caduto”. Mentre Giuliano Ferrara
invocava più poteri ad Arcuri il direttore del suo giornale “Il Foglio” Claudio Cerasa
ha elogiato il decisionismo di Draghi marcando una discontinuità netta col governo
precedente nonostante tifassero per il Conte-bis e il Conte-ter. Stessa musica al
“Corriere della Sera” innamorati dell’avvocato pugliese prima ma dopo Fiorenza
Sarzanini ha salutato la “nuova stagione” ed ha messo in fila le “inefficienze del
governo Conte” mentre più duro e implacabile è stato Federico Fubini contro i suoi
“troppi incarichi e gli errori da ribalta” non risparmiando nulla al duo Conte-Arcuri.
In battaglia anche “La Stampa” che sotto la direzione di Massimo Giannini era stata
a lungo ossequiosa verso Conte e i suoi ma dopo: contrordine compagni! “Draghi
chiude l’era Conte-Arcuri…dal flop di Immuni alle inchieste sulle spese” ed anche il
compassato Marcello Sorgi si esprime con “Il colpo d’ala che serviva”. Si ma loro che
facevano? Semplicemente amavano girarsi dalla parte del vento che soffia perché
sai com’è, non essendo imbarcazioni a motore e quindi autonome ed utilizzando
solo le vele, hanno bisogno di aria buona che le faccia muovere. Ed il Vaticano da
sempre tutor e protettore di Conte con le sue frequenze nelle sacre stanze, fin da
subito ha scaricato il portavoce del già cardinale Silvestrini entrando in piena
sintonia col neogoverno di Mario Draghi definito “persona di altissimo profilo e di
sicura coscienza”. Meglio non parlare dei giravolta stupefacenti del “Pd” o dei
“5stelle” in preda ad una nemesi storica di liquefazione senza precedenti con il
segretario del primo che si è dimesso “vergognandosi” dei suoi amici di partito
protesi ai salotti, alle cariche, al potere, più che amanti dei bisogni del popolo e con
un capo carismatico del secondo che va in giro con uno scafandro spaziale perché
essendo “Elevato” teme contaminazioni plebee, proponendosi anche come
segretario del partito della “gauche caviar”. Roba che neanche al cabaret! Questo il
rovescio infame della storia italica, le servitù e le tirannidi subite nei secoli, i cambi
di padrone e i tradimenti, le rese disonorevoli, il trasformismo e l’opportunismo
cinico che hanno contraddistinto larga parte del nostro popolo e delle nostre classi
dominanti secondo il vizio antropologico della “vigliaccheria senza carattere”. E
quando i messi di una città insorta andarono da Carlo D’Angiò dicendo che la
rivolta fosse “opera di pazzi” il re rispose “E i savi che facevano?”. In effetti la
cattiveria, l’infedeltà ai patti e la furbizia aiutano a vivere meglio perché le persone
determinate e senza scrupoli sono spesso vincenti giocando a sminuire gli altri per
primeggiare. E questa oggi la definizione di “coraggio” che mantiene a galla e
cavalca ogni evento. Essere buoni significa essere colpevoli, molli, disinteressati,
apatici, non all’altezza ma essere cattivi e vigliacchi significa essere in preda a
sentimenti negativi come frustrazione, rabbia, tristezza, invidia e si cede alla
malvagità per difendersi, per abitudine o per proprio tornaconto. Si può essere
ancora buoni ed avere coraggio invece di essere cattivi e vigliacchi? Si può perché i
buoni esistono ancora e si difendono prediligendo il dialogo, continuando a scegliere
positività, franchezza e trasparenza emotiva, proteggendosi con la riservatezza
riguardo se stessi e alla propria vita, in modo da non offrire il terreno su cui essere
colpiti e mai rispondere fuoco al fuoco, né con le vendette. Si alimenterebbero solo
rabbia e negatività. Scegliere piuttosto la gentilezza che spiazza anche i più cattivi!
Questa è la forma migliore per vivere più a lungo, perché se i buoni si sentono
vittime per loro non c’è scampo secondo il detto “I migliori se ne vanno”. Questo
non significa che si debba essere solo colloquiali e prudenti, significa anche avere
spirito di sacrificio ed essere amichevoli col “Dolore” che forgia il nostro essere e ci
fa sentire più forti e padroni del nostro destino. Come osserva Veneziani in merito
alla differenza di fondo fra il nostro tempo e le civiltà tradizionali, ossia tra le
società dominate dall’io, dalla tecnica e dalla finanza e le società pervase dal sacro,
dal rito e dal divino: le civiltà tradizionali “addomesticano” il dolore, la morte, la
vecchiaia, la solitudine, cioè le rendono familiari inserite in un ordine naturale e
soprannaturale del mondo in un rito e visione religiosa. La nostra società, invece, li
allevia, rinvia, nasconde ed espelle, grazie alla tecnologia, alla medicina, al
benessere, alle distrazioni. La pandemia ha scatenato i quattro fattori dolenti,
generando paura e spaesamento e ci siamo sentiti indifesi rispetto alla morte alla
sofferenza, alla vecchiaia, alla solitudine. Il filosofo tedesco di origine coreana
Byung-Chul Han nel suo saggio “La società senza dolore” nota che abbiamo bandito
la sofferenza dalle nostre vite, viviamo in un’anestesia permanente, abbiamo
medicalizzato il dolore e ci perdiamo così anche i doni più belli e spirituali del dolore,
la sua forza etica e solidale, purificatrice. Preferiamo rinunciare all’amore e ai legami
intensi perché comportano dolore dal quale invece nascono grandezze come le
grandi opere, il grande pensiero, l’arte, le santità. Noi occidentali di oggi che non
abbiamo patito la miseria, la fame, la guerra, i lutti fuggiamo dal dolore in ogni sua
forma. Siamo più fragili, abbiamo meno capacità di sopportare, barattiamo la vita
con la sopravvivenza e bisogna riconoscere, senza alcun dubbio, che è la religione
cristiana ad aver dato dignità e spiritualità al dolore, ad averlo rappresentato nella
passione e crocifissione di Gesù Cristo, ad aver stabilito il nesso fra sofferenza e
redenzione. Il nostro mondo fugge dal cristianesimo e dal dolore ma si potrebbe dire
anche che fugge dal dolore e perciò abbandona il cristianesimo. E a proposito dell’8
Marzo festa delle donne, a proposito dei femminicidi, andrebbe rivisto la figura del
nemico delle donne che non è il padre padrone ma un figlio “disturbato”. Ed è in
malafede chi sottolinea come il crimine del femminicidio avvenga spesso in famiglia,
verso chi ti è più vicino, minando il suo valore e la vita di coppia ma a fronte delle
decine di casi di questo delitto ci sono milioni di rapporti familiari sereni e perfino
noiosi. Si interpreta il femminicidio come frutto di machismo, affermazione
estrema di supremazia maschile, ripristino di una maestà spodestata. In realtà è
frutto di debolezza, di fragilità, di dipendenza patologica ed assoluta dalla donna-
moglie-madre-matrona, incapacità di percepirsi autonomi, indipendenti e sovrani
della propria vita. Un “vigliacco” che ha perso la propria dignità, responsabilità, che
non ha altro modo di proseguire la propria esistenza secondo altri luoghi ed
occasioni e che invece ha il fine di punire il “pusher” da cui dipende, oltre al fatto di
coinvolgere i propri figli e se stesso azzerando le vite. Donne vi auguro felicità e
prosperità ma non dimenticate che chi vi uccide non è il “pater patronum” all’antica
ma il “figlio disturbato” di questo presente in cui siete immerse pure voi: datevi una
calmata e ritornate ad essere la figura centrale ma interpares con il vostro uomo
perché da sempre lui è in mano a lei. Siate più accorte ed utilizzate il vostro naturale
superiore sesto senso per il quale la natura vi ha donato la maternità! La storia lo
dice, non io!
Viltà e vigliaccheria, di Arcadio Damiani
