Cinema etico o propaganda? Una critica tagliente a “Io Capitano” di Garrone tra estetica, ideologia e cinema dell’immigrazione.
Cinema etico o propaganda: “Io Capitano” sotto esame
“L’arte deve mostrare, non predicare.” – Stanley Kubrick
“Quando l’arte diventa propaganda, cessa di essere arte.” – Albert Camus
“Io Capitano” di Matteo Garrone non è un film: è un bollettino delle Nazioni Unite con la colonna sonora orchestrale. Un racconto edificante, costruito con la precisione di un manifesto, che ha il coraggio solo di dire ciò che tutti vogliono sentirsi dire. È il cinema delle buone intenzioni: sterile, pacificato, inoffensivo.
Cinema etico o propaganda? Una riflessione oltre il film
Dove sono finite le zone grigie? Dov’è l’ambiguità di un “City of God” di Meirelles, che mostrava l’inferno senza chiederci di schierarci moralmente, ma semplicemente di guardare? Dov’è il senso di sprofondamento esistenziale che dava un film come “Come un uomo sulla terra” di Dagmawi Yimer, girato con mezzi infinitamente più poveri ma con una verità bruciante? Persino un film “di sistema” come “Hotel Rwanda” riusciva a farci percepire il peso delle scelte, dei compromessi, della colpa. “Io Capitano”, invece, ripulisce tutto. Estetizza il dolore. Lucida la tragedia.
Il confronto con il vero cinema del disagio
Il protagonista – candido, altruista, incrollabile – sembra uscito da un laboratorio morale. È l’eroe perfetto per un cinema che ha smesso di fare domande e si limita a fornire “rappresentazioni inclusive”. Ma l’inclusione senza conflitto è solo marketing. Il vero cinema dell’immigrazione – quello di Andrea Segre, ad esempio, o di Radu Jude quando tratta i margini della società – non cerca di renderti solidale. Ti mette a disagio. Ti fa inciampare nella tua ipocrisia.
Un protagonista ideale, ma poco umano
Garrone, che in “Gomorra” sapeva mostrare il male come sistema organico, qui fa l’opposto: estrae l’innocenza come pepita d’oro da un fiume di fango. Non ci sono ambiguità, non ci sono colpe. Non c’è storia, c’è un’agiografia. È come se Pasolini avesse girato “Accattone” evitando ogni contraddizione morale. Come se Herzog avesse raccontato “Fitzcarraldo” dimenticando il delirio. Ma il cinema non è una sede ONU. È il regno del dubbio.
Dall’autenticità al racconto pacificato
Il problema non è la causa. È la resa artistica. Puoi fare un film politicamente potente senza essere moralista: pensa a “La Promesse” dei fratelli Dardenne, o a “The Immigrant” di James Gray, che raccontano i corpi migranti con mille sfumature, senza prediche. “Io Capitano”, invece, è un film che non urta mai, non morde mai. Per questo vince premi. Per questo sarà dimenticato in fretta.
Cinema del messaggio o del mondo?
È il cinema del “messaggio” che ha sostituito il cinema del mondo. Il cinema che crede che raccontare la sofferenza basti a nobilitare la forma. Ma no: l’estetica è etica. E un’estetica così beneducata, così accondiscendente, è figlia di un’idea stanca, borghese, autoassolutoria di cosa significhi fare arte oggi.