“Il giornalismo è il primo abbozzo della storia.” — Philip L. Graham
L’informazione, il giornalismo d’inchiesta e quello di cronaca nera
Nel mondo dell’informazione, il giornalismo d’inchiesta e quello di cronaca nera svolgono una funzione delicatissima: raccontano i fatti quando ancora sono avvolti nel dolore, nell’incertezza e, spesso, nell’irrazionalità. Per questo dovrebbero operare con rigore, con cautela, e soprattutto con rispetto. Ma la realtà è spesso molto diversa. Negli ultimi anni, in Italia, si è assistito a una crescente spettacolarizzazione del crimine, in cui la sofferenza privata diventa racconto seriale e il sospetto si trasforma in moneta editoriale.
Un caso emblematico di questa deriva è rappresentato dal recente comportamento del settimanale Giallo, che ha dedicato la propria copertina a un messaggio ambiguo risalente al 2007, in cui una delle cugine della vittima, Chiara Poggi, scriveva: “Mi sa che abbiamo incastrato Stasi”. Frase ora oggetto di attenzione da parte della Procura, ma che – va sottolineato con fermezza – non rappresenta una prova, né ha prodotto ad oggi alcuna conseguenza giuridica nei confronti delle persone coinvolte.
Il contesto: vent’anni di dubbi, processi e ipotesi
L’omicidio di Chiara Poggi ha segnato un’intera generazione. Accaduto nella tranquilla Garlasco, nel pavese, il 13 agosto 2007, ha catalizzato l’attenzione di media e opinione pubblica. Dopo anni di indagini, due gradi di giudizio e un processo d’appello bis, Alberto Stasi – fidanzato della vittima – è stato condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione.
Tuttavia, anche dopo la condanna, il caso non ha mai smesso di far discutere.
Dalla ricerca di possibili profili DNA “misteriosi” sulla scena del crimine, alle ricostruzioni alternative dei movimenti, ai molti dubbi mai del tutto sopiti sull’effettiva dinamica dell’omicidio, è rimasta nell’opinione pubblica la percezione che “non tutto sia stato chiarito”.
È proprio su questa zona grigia – tra certezza giudiziaria e suggestione popolare – che alcune testate, come Giallo, hanno trovato terreno fertile per rilanciare, a cadenza quasi ciclica, nuove piste, nuovi sospetti, nuovi colpi di scena.
Il messaggio “incriminato”: un frammento senza contesto
Nell’ultima narrazione proposta da Giallo, la redazione ha scelto di concentrare l’attenzione su un breve messaggio che una delle sorelle Cappa ha scritto nel 2007, subito dopo l’arresto di Alberto Stasi. Il testo recita: “Mi sa che abbiamo incastrato Stasi”. Indubbiamente, si tratta di una frase potenzialmente ambigua. Potrebbe essere stata ironica, ingenua o semplicemente inconsapevole delle sue implicazioni. Tuttavia, Giallo ha riportato questo frammento senza alcun contesto, aggravando così la confusione e contribuendo a una narrazione distorta.
Gli autori del messaggio non hanno mai chiarito il destinatario, né spiegato il contesto emotivo in cui scrissero quella frase potenzialmente ambigua e fuori contesto. Nessuno, fino a oggi, ha dimostrato che quelle parole alludessero a un’azione concreta per manipolare le indagini o creare falsi indizi. Nonostante ciò, la redazione di Giallo ha scelto consapevolmente un titolo fuorviante, capace di trasformare un sospetto in verità e un dubbio in certezza.
Un titolo che condanna prima ancora di informare
Un titolo sensazionalistico non serve solo a catturare l’attenzione: rappresenta, infatti, una precisa scelta editoriale e un atto di responsabilità – o di evidente irresponsabilità. Tuttavia, nel giornalismo italiano, molti editori e redazioni scelgono troppo spesso di ignorare le profonde implicazioni che una copertina può generare sulla vita delle persone coinvolte. Le autorità non hanno mai indagato le gemelle Cappa, né hanno avviato alcun procedimento penale a loro carico. Nonostante ciò, la redazione di Giallo ha deciso comunque di gettare ombre su di loro, alimentando sospetti mai espressi dalla giustizia e contribuendo, così, a distorcere la percezione pubblica dei fatti.
L’errore qui non è solo etico, ma anche metodologico. Il giornalismo, per sua natura, dovrebbe attenersi ai fatti verificati. Non basta che un elemento sia “nuovo” o “interessante”: deve anche essere rilevante, verificabile e contestualizzato. Altrimenti non si informa: si insinua. Non si racconta la verità: si fabbrica una narrazione.
La cultura del “colpo di scena” e le sue vittime
Quello di Giallo è solo l’ultimo episodio di una lunga serie in cui l’informazione ha ceduto alla tentazione del dramma. È accaduto con il caso di Yara Gambirasio, in cui alcuni settimanali insinuarono il coinvolgimento di persone innocenti. È accaduto con il delitto di Avetrana, dove la figura di Sabrina Misseri venne processata pubblicamente ancor prima che lo facesse un’aula di giustizia. E accade, ogni giorno, anche con casi meno noti, ma altrettanto devastanti per chi li vive.
La stampa – soprattutto quella di massa – ha una responsabilità sociale enorme: forma l’opinione pubblica, orienta il dibattito, crea un clima. In un’epoca in cui le persone leggono più i titoli che gli articoli, ciò che viene scritto in copertina ha un impatto maggiore di qualunque parere legale. E quando quel titolo allude a un coinvolgimento criminale di persone mai formalmente coinvolte, si produce un danno che nessuna smentita potrà mai riparare.
La funzione (tradita) dell’Informazione e del Giornalismo
Giornalismo non significa dare voce a ogni teoria. Significa scegliere con criterio cosa pubblicare, quando pubblicarlo e come presentarlo. E’ saper distinguere tra ciò che è d’interesse pubblico e ciò che è semplicemente privato. Significa comprendere che la libertà di stampa non è una licenza per diffamare, ma un diritto accompagnato da doveri: verificare le fonti, rispettare la dignità delle persone, evitare il sensazionalismo.
Quella di Giallo è stata una scelta consapevole: non un errore di valutazione, ma una precisa strategia per rilanciare un caso noto, generare attenzione, vendere copie. Una strategia in cui la verità è secondaria rispetto alla tensione narrativa, e il dolore diventa materiale da copertina.
Informazione e Giornalismo: serve un’etica nuova
C’è un punto oltre il quale l’informazione smette di essere utile e diventa pericolosa. Quando si sfrutta una frase privata per costruire un’accusa pubblica oppure si rilanciano teorie non supportate da prove. Infine quando si evocano nomi, volti, famiglie, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Il caso Garlasco merita rispetto. Chiara Poggi merita rispetto. Le persone coinvolte, tutte, meritano silenzio, tempo, rigore. Non copertine, non titoli a effetto, non fiction giornalistiche.
Il giornalismo che costruisce storie sulle rovine della realtà non solo tradisce la sua funzione: contribuisce a rendere più torbido ciò che dovrebbe chiarire. E in un momento storico in cui la fiducia nella giustizia e nei media è in crisi, serve più che mai un ritorno all’essenziale: ai fatti, alla verifica, alla responsabilità.