“Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera.” — Johann Wolfgang Goethe
Thomas Mann
Nel 2025 ricorre un doppio anniversario per Thomas Mann: 150 anni dalla nascita (Lubecca, 6 giugno 1875) e 70 dalla morte (Zurigo, agosto 1955). Nessun clamore, qualche ristampa, un po’ di convegni. Ma, nel dibattito pubblico — quello vero, quello che dovrebbe ancora interrogarsi sull’Europa, sul destino della cultura, sul ruolo dell’intellettuale — Mann è scomparso. Ci sono anniversari che passano inosservati come ombre d’autunno, e poi ci sono quelli che dovrebbero imporsi come scosse telluriche, come ritorni del rimosso.
L’ultimo scrittore europeo: Thomas Mann
Eppure, in un tempo in cui scrittori e pensatori sono diventati decorativi, ottimizzati per i festival e le stories, il suo fantasma torna a reclamare attenzione, con la forza di chi sa di essere stato, forse, l’ultimo vero scrittore europeo: aristocratico nella lingua, spietato nel pensiero, profondamente politico senza essere ideologico. Thomas Mann è stato, e rimane, lo scrittore morale per eccellenza. Non nel senso della predica, ma nel senso greco: la morale come modo di stare nel mondo, di interrogarlo con strumenti formidabili, a partire dalla letteratura.
Scrivere contro, non per
Mann non scrive mai “per”. Scrive “contro”. Contro la semplificazione, contro il populismo, contro la vacuità delle passioni deboli e delle opinioni forti. Scrive contro l’anestesia dello spirito. E proprio per questo la sua opera è, oggi, attualissima. La dimenticanza in cui è piombato è una diagnosi perfetta del nostro tempo: un’epoca che preferisce la leggerezza all’analisi, la reazione al ragionamento, la superficie alla profondità.
L’anatomopatologo dell’anima
Chi apre I Buddenbrook o La montagna incantata non trova solo romanzi: trova la mappa di un mondo in disfacimento, la genealogia dell’uomo occidentale, i segreti di quella borghesia europea che — illusa di eternità — avrebbe generato il nazismo. Mann è un anatomopatologo dell’anima: seziona l’io con la precisione di un chirurgo e l’inquietudine di un mistico. Non osserva l’umanità dall’alto come Balzac, non la travolge come Céline: la interroga come chi sa che ogni singolo gesto contiene un enigma.
Letteratura come laboratorio
Scrive romanzi-laboratorio, opere-mondo dove il pensiero danza con la forma. Non racconta, indaga. Non consola, inquieta. La sua scrittura è densa, ellittica, cesellata come musica da camera. Ma dietro l’ornamento c’è sempre il dilemma: può l’arte salvarci? O è solo un modo raffinato di mentire?
Morte a Venezia: lo specchio dell’Europa
Forse nessuna opera incarna il presente quanto Morte a Venezia, quella breve e devastante discesa nell’abisso. Gustav von Aschenbach è l’emblema dell’intellettuale europeo: razionale, composto, disciplinato, votato alla forma come argine contro il caos. Ma proprio lui, nella città languida e marcescente, si perde. Si perde nel desiderio, nella bellezza, nel silenzio della ragione.
La Venezia interiore del nostro tempo
Venezia, in Mann, è più di una città: è uno specchio. E oggi, quello specchio ci rimanda un’immagine che fa paura. È l’immagine di un’Europa incerta, molle, pavida. È il riflesso di un pensiero che ha smesso di sfidare il presente e si è ritirato nell’autocelebrazione. Quella Venezia, oggi, è ovunque: è l’Occidente rammollito, narcotizzato, incapace di riconoscere il pericolo anche quando la peste — allora come oggi — serpeggia tra le calli. Il colera di Mann è una metafora potentissima: non è solo malattia fisica, ma decadimento del pensiero, collasso dell’etica, ignoranza estetizzata.
Aschenbach siamo noi
E Aschenbach? È l’intellettuale di oggi. Solo che oggi muore prima ancora di combattere. Non scende a Venezia, non si lascia turbare, non rischia nulla. Si adatta. Partecipa. Modera. Sorride. I Tadzio non lo trafiggono: lo intrattengono. Non ha il coraggio di Aschenbach, che almeno cede con onore alla bellezza. Gli intellettuali odierni non cedono: evaporano.
Thomas Mann: La cultura come resistenza
Ciò che Mann mette in scena, in pochi capolavori, è il tramonto della cultura come forza vitale. E il suo stile — così colto, così ricco, così refrattario alla velocità — è oggi quasi un gesto politico, una resistenza alla dittatura del semplice. Lo sguardo di Mann, mai indulgente, mai complice, ci chiama a una responsabilità: essere degni della nostra coscienza. Non lasciarla spegnere, anche quando ogni incentivo ci spinge al contrario.
Il rischio della profondità
Harold Bloom lo diceva senza mezzi termini: La montagna incantata rappresenta “l’alta cultura che al momento si trova in pericolo, dato che richiede un grado considerevole di istruzione e riflessione.” Eccolo il punto: l’alta cultura oggi ci fa paura. Non perché sia inaccessibile, ma perché ci costringe a guardarci allo specchio senza filtri. Mann non permette la superficialità, non consente distrazioni. Leggerlo è un atto di resistenza, è rientrare alla terra più lucidi, più inquieti, più giusti.
Contro l’ignoranza estetizzata
Mann è il nemico naturale della retorica del “tutti possono scrivere”. Ci ricorda che scrivere è un mestiere serissimo, spesso ingrato, e che la letteratura non nasce dall’estro momentaneo, ma dalla disciplina, dalla crisi, dalla capacità di affrontare la complessità. Oggi, in un mondo dove si pubblica con la velocità dei post, Mann è un monumento al tempo lento. È un monito.
Il pericolo di Thomas Mann
Ma è un rischio. Perché, come Mann stesso sapeva, chi guarda troppo a lungo l’abisso finisce per scoprirsi abissale. Ecco perché è stato rimosso: perché è pericoloso. Non vende, non intrattiene, non rincuora, non si può piegare a narrazioni identitarie o a operazioni editoriali à la page. Non lo si può ridurre a testimonial. Mann non si cita: si legge, o si tace.
L’intellettuale Thomas Mann come coscienza della storia
E tuttavia, Mann è uno degli scrittori più politici del Novecento. Non perché aderisca a un programma, ma perché comprende che l’arte — se davvero vuole essere tale — deve parlare alla storia, deve prendere posizione, deve rischiare. Esule dal nazismo, profeta lucido della crisi europea, la sua voce risuona nei suoi discorsi agli americani e nei suoi diari con una forza che oggi suona profetica. “L’intellettuale,” sembra dirci, “non deve essere il discepolo del suo tempo, ma la sua coscienza.”
Una coscienza assopita
La coscienza oggi langue, sopita, anestetizzata da una cultura che fa del consenso l’unica metrica e dell’intrattenimento la sola forma di parola accettabile. Ma ogni tanto, nel silenzio, qualcuno torna a leggere Mann. E sente qualcosa muoversi. Non è nostalgia: è resistenza.
Thomas Mann si deve Affrontare, non celebrare
Thomas Mann non è da celebrare: è da affrontare. È un Everest, non un santino. È un autore che ci giudica mentre lo leggiamo. Ma se accettiamo la sfida, qualcosa accade. La mente si allarga, il linguaggio si affina, la coscienza si fa più esigente. Ci scopriamo meno disposti a credere alle bugie — soprattutto a quelle che raccontiamo a noi stessi.
Pensare come atto di coraggio
In un tempo che ha fatto dell’opinione un totem e dell’ignoranza una virtù, Mann ci ricorda che pensare è un atto di coraggio. E che leggere, davvero leggere, è forse l’unica forma di libertà rimasta.
La profondità è salvezza
Dunque tuffiamoci. La profondità non è il pericolo: è la salvezza.
E in quella profondità, forse, ritroveremo non solo Thomas Mann, ma anche noi stessi.