“Il talento colpisce un bersaglio che nessun altro può colpire; il genio colpisce un bersaglio che nessun altro può vedere.”
— Arthur Schopenhauer
Una Dichiarazione Programmatica
La 70ª edizione dei David di Donatello si è trasformata in una dichiarazione programmatica. Non più soltanto celebrazione del talento e della qualità cinematografica, ma una vera e propria passerella simbolica per la nuova narrazione culturale italiana. Un’edizione, quella del 2025, che sembra voler riequilibrare non solo gli scompensi di genere, ma anche le priorità estetiche e artistiche, a favore di un cinema sempre più impegnato, identitario e, per alcuni, programmaticamente militante.
Il dominio di “Vermiglio” e il ritorno dell’autorialità femminile
Il film Vermiglio di Maura Delpero ha fatto incetta di riconoscimenti: miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista, sceneggiatura, fotografia, montaggio e colonna sonora. Sette statuette che fanno rumore. Perché Vermiglio non è solo un’opera elegante, ma anche profondamente aderente a una certa linea di pensiero: introspezione, maternità, memoria storica e femminismo. Tutti temi che si intrecciano in una narrazione densa e poetica, che si fa però simbolo – forse troppo – del momento storico.
Ma la vera domanda resta: avrebbe vinto lo stesso se fosse stato diretto da un uomo? La qualità del film è indubbia, ma la coincidenza tra l’ondata femminile e l’apertura totale dell’Accademia del Cinema Italiano a un’agenda identitaria lascia perplessi anche i più benevoli.
Francesca Mannocchi e la lirica della guerra
Altro caso emblematico è Lirica Ucraina di Francesca Mannocchi, premiato come miglior documentario. Un’opera toccante e drammatica, che fonde poesia e giornalismo, raccontando la guerra russa in Ucraina non solo con immagini crude, ma anche con una sensibilità spiccata, che umanizza le vittime e riflette sulla dignità della resistenza.
Qui il merito è forse più evidente, ma anche in questo caso il contesto non può essere ignorato: un documentario su una guerra ancora in corso, con la prospettiva di una donna italiana dalla parte “giusta” del conflitto. Una scelta che fa onore, ma che conferma quanto la giuria sembri aver privilegiato messaggi politici e sociali, prima ancora che innovazione o forza espressiva.
Una parata di voci femminili: Vicario, Golino, Comencini, Cavani
Non è finita. Gloria! di Margherita Vicario si è portato a casa tre David, tra cui miglior regista esordiente. Il film, ambientato in un collegio femminile del XIX secolo, è una dichiarazione di indipendenza, creatività e identità di genere. Un musical anomalo, stravagante e dichiaratamente femminista. Meritevole? In parte sì. Ma anche qui, sembra che il premio voglia “incoraggiare” un certo tipo di cinema più che premiare un risultato.
Anche Valeria Golino è tornata alla ribalta con L’arte della gioia, tratto dal romanzo di Goliarda Sapienza: quattro premi, tra cui miglior sceneggiatura non originale e miglior attrice non protagonista. È un’opera monumentale, raffinata, intensa – ma ancora una volta, perfettamente aderente a un canone femminista, intersezionale, antiautoritario.
Francesca Comencini è stata candidata con Il tempo che ci vuole, mentre Ultimi giorni di Maria Antonietta di Susanna Nicchiarelli ha ottenuto attenzione e menzioni. Anche Liliana Cavani, simbolo del cinema autoriale al femminile del Novecento, è tornata a essere celebrata. Il messaggio è chiaro: questa è l’edizione delle donne. Tutto il resto – innovazione visiva, audacia narrativa, rischio artistico – è sembrato passare in secondo piano.
Una stagione ideologica?
C’è chi parla di “trionfo femminile” con entusiasmo, e chi, con cautela, suggerisce che la giuria abbia seguito più una linea culturale che artistica. È legittimo domandarsi se questa selezione di premi – pur sostenuta da opere di valore – sia davvero il frutto di un confronto equo e aperto o se, piuttosto, risponda a una pressione ideologica.
Dopo l’onda #MeToo, il rinnovato femminismo delle piattaforme e il dibattito acceso sul ruolo delle donne nel cinema, i David di Donatello 2025 sembrano chiudere il cerchio: rappresentare una nuova era in cui il genere dell’autore conta quanto – e forse più – della visione artistica.
Una Dichiarazione Programmatica: Il rischio della direzione unica
Il pericolo è che questa “correzione storica” si trasformi in una nuova ortodossia, dove si premia non ciò che è migliore, ma ciò che è più rappresentativo di una causa. Un cinema che si trasforma in pamphlet, e una giuria che pare scegliere per ideologia più che per emozione, visione o innovazione.
Se così fosse, il cinema italiano rischierebbe di diventare autoreferenziale, chiuso in un dibattito interno più attento alla conformità sociale che alla pluralità delle voci. E in quel caso, i premi smetterebbero di guidare la qualità, per diventare strumenti di propaganda culturale.
Conclusione di Una Dichiarazione Programmatica
I David di Donatello 2025 ci parlano di un’industria in trasformazione, ma anche di un cinema in cerca di legittimazione ideologica. Le registe premiate meritano sicuramente rispetto e attenzione – ma il dubbio resta: siamo davanti a una vera rinascita artistica o a un nuovo conformismo?